La crisi brasiliana

Con una maggioranza schiacciante, la Camera dei Deputati brasiliania ha deciso l’avvio dell’impeachment alla Presidente Dilma Rousseff. Va notato che non la si accusa di corruzione (come nel caso del precedente impeachment a Collor de Mello), ma di aver truccato i conti dello Stato e aver speso, nel periodo della campagna precedente alla sua rielezione, più di quanto approvato dal Congresso. Sono accuse gravi, certamente, ma meno di quelle di corruzione mosse  all’ex-Presidente e mentore di Dilma, Lula da Silva, e di quelle sollevate in questi ultimi giorni in Argentina contro la ex-Presidente Cristina Kirchner e molti suoi collaboratori. È certo però che il clima di malaffare emerso con lo scandalo Petrobras, che ha pesantemente coinvolto il partito della Rousseff, ha molto pesato, e forse ancora di più hanno pesato la recessione, l’inflazione, la disoccupazione e il fatto che la stessa Dilma, dopo aver accusato l’opposizione prima delle elezioni  di voler praticare un drastico “aggiustamento” della spesa pubblica, l’ha poi realizzato lei stessa appena eletta. Perdendo così credibilità anche tra i suoi elettori.

Il voto della Camera è però solo l’inizio di un processo lungo e incerto. Ora il Senato brasiliano dovrà decidere (a maggioranza semplice) se accetta o no il voto della Camera. In questo caso, Dilma sarà sospesa dalla carica per 180 giorni. Le subentrerà al governo il Vicepresidente Temer, che appartiene a un partito già alleato ma ora passato all’oppozione. Al termine del periodo, il Senato dovrà decidere sull’impeachment con almeno due terzi dei voti. Solo allora la Presidente sarà definitivamente rimossa. Altrimenti riprenderà il suo posto. In ogni caso, dalla vicenda uscirà politicamente indebolita e con una molto ridotta capacità di governare. Avrebbe contro la maggioranza del Parlamento e un Paese diviso, in cui la maggioranza (secondo i sondaggi, più del 60%) chiede la sua rimozione. C’è inoltre da tenere conto dei probabili sviluppi della vasta inchiesta giudiziaria in corso. Quello che indigna è che in una situazione così grave, invece di difendersi nel merito, Dilma Rousseff ricorra alla scontata tesi del “colpo di stato” contro di lei. Ma  i colpi di stato li fanno i militari o le piazze, non i Parlamenti, quando agiscono nel quadro della Costituzione e delle leggi. Non lo fa la Magistratura, quando fa il suo mestiere e persegue corruzione, malversazione e abuso di potere. Se la signora Rousseff, che non è priva di meriti, e di cui va ricordata la prontezza con cui cacciò dal suo governo alcuni Ministri sospetti di corruzione, vuole uscire con un minimo di onore da una vicenda desolante, almeno non cerchi giustificazioni e non lanci accuse che sono solo  demagogia.

Nel frattempo, si è levato  il solito, patetico coretto di dichiarazioni di appoggio alla Presidente imputata. Ma sono appoggi di cui, al suo posto, farei volentieri a meno; vengono infatti da regimi  compromessi o in crisi: Cuba, Bolivia, Ecuador, Venezuela, il Gotha del populismo sudamericano. E tutti a ripetere  la prevedibile sciocchezza: non contano i fatti, la crisi economica, la malversazione, gli abusi; no, la colpa è della destra reazionaria e, come no, imperialista, manipolata dagli Stati Uniti, che vuole  distruggere i regimi “nazionali e popolari”. Regimi, è bene ricordarlo, che dovunque non hanno causato che disastri. Nessun governo serio si è associato a questo lamentabile coro. Non per antipatia verso la Rousseff, ma per elementare non interferenza negli affari altrui. Regola che il populismo allegramente ignora.

La fase che si è aperta per il Brasile è comunque inquietante e non solo per quel Paese, ma per l’insieme dell’America Latina, di cui esso costituisce l’elemento chiave, ed oltre. Il Brasile non è un Paese marginale, né politicamente né economicamente. È dunque interesse di tutti che questa vicenda sia superata senza troppi traumi e, se possibile, in modo ragionevolmente rapido.

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