Brexit, verso il referendum

Il referendum inglese sull’Europa è ormai vicino e le previsioni sul risultato sono ancora incertissime. I sondaggi oscillano, mostrando che ci sono due solidi nuclei abbastanza equivalenti, uno a favore e uno contro l’uscita dalla UE (il primo leggermente maggioritario) e in mezzo un 10 o 15% circa di indecisi, che probabilmente si lasceranno guidare dall’istinto negli ultimi giorni. Il chiaro invito di Obama a restare in Europa ha forse aiutato un po’ Cameron (il cui prestigio è però indebolito dai “Panama papers”), ma non so quanto realmente influisca sulla psiche britannica, attraversata da una vera ondata di acceso sciovinismo. E intanto, le parole di Obama hanno sollevato una furiosa reazione dei fautori dell’uscita, non esente da alcune bassezze. Il Sindaco di Londra ha definito con sprezzo il Presidente degli Stati Uniti “mezzo keniota”, mostrando bene (ma in Italia lo sappiamo fin troppo) che antieuropeismo e razzismo sono due facce della stessa medaglia. Confesso che la cosa mi ha un po’ deluso: pensavo che il dibattito politico in Inghilterra fosse di altro livello, ritenevo che gli insulti personali, la squalificazione dell’avversario, usati in luogo di veri argomenti dialettici, fossero una prerogativa dei vari Salvini, Grillo e compagnia. Mi sbagliavo. Evidentemente, quando si tratta di volgarità, tutto il mondo è paese, ivi compresi i compassati sudditi di Elisabetta II.

Sto seguendo con interesse il dibattito in corso, non tanto tra i politici (o politicanti), il cui corso è scontato, quanto quello  dei numerosi opinionisti e “think-tank”. Tra questi ce ne è uno, l’OMFIF (Official Monetary and Financial Institutions Forum), che mi ha chiesto un contributo e cortesemente mi invia le sue note quotidiane. Non è tanto la sostanza delle opinioni (per lo più favorevoli all’exit) che colpisce, ma il loro carattere terribilmente terra a terra. Calcoli, controcalcoli, giusti o sbagliati (un po’, diremmo in Italia, “conti della serva”), ma una totale assenza di afflato ideale. Per molti di noi, l’Europa, al di là dei suoi vantaggi concreti, è stata e resta un sogno, una visione da perseguire, in sostanza una specie di matrimonio di amore. Per gli inglesi, sin dall’inizio, è stato un matrimonio di pura convenienza, è sempre mancata quella “affectio” che è base indispensabile di ogni legame duraturo. Gli inglesi sono gente pragmatica, si sa, aliena alle grandi astrazioni. Questo pragmatismo dovrebbe in realtà consigliarli a restare nell’Unione, sfruttandone i vantaggi e limitandone – come è riuscito a fare Cameron – gli svantaggi. Ma a questo punto il pragmatismo cede allo sciovinismo. L’Inghilterra si sente un isola, è fieramente attaccata alla sua indipendenza e accetta malissimo regole imposte dal di fuori. Oggi, una quantità di opinionisti dicono agli inglesi che staranno meglio fuori dell’Europa. Molti lo credono, ma più che una convinzione razionale credo valga un istinto quasi viscerale: sterlina, bandiera, Regina e “gung-ho”.

Nel dibattito ricorrono, tuttavia, elementi che a me paiono illusori. Il primo è che l’Inghilterra, da sola, abbia ancora dimensioni adeguate al mondo di giganti in cui viviamo: è un residuo di illusione imperiale, ma è visibilmente falso. A sostenerlo c’è in parte la convinzione che la dimensione  atlantica, basata sull’alleanza viscerale con gli Stati Uniti, offra una sponda molto migliore di quella europea. Le parole di Obama avrebbero dovuto sfatare questo mito, il Presidente ha detto in sostanza agli inglesi: ci servite di più, e quindi conterete di più ai nostri occhi, se restate nell’UE.  Non so se sia sufficiente, ma questa posizione è logica: secondo le inclinazioni dell’Amministrazione in carica a Washington, l’Inghilterra in Europa può essere vista come un avvocato utile o come un “cavallo di Troia”. Ma fuori di essa resterebbe un alleato utile nella NATO, ma nulla di più.

L’altra illusione che affiora  è che l’Inghilterra, uscita dall’Unione, possa conservare tutti i vantaggi del Mercato Unico e quindi mantenere la sua posizione privilegiata soprattutto come fornitrice di servizi. La City londinese non ci crede molto ed è per questo preoccupata. A me sembra che alle Autorità di Bruxelles, e ai principali Paesi membri, spetti il dovere di dire chiaramente che o si è dentro o si è fuori dell’Europa, e se si è fuori non si può illudersi di avere un trattamento privilegiato. È probabile che nessuno lo dica, per non aprire ora un inutile contenzioso, ma è un errore di cui potremmo pentirci.

Comunque sia, le cose andranno come andranno. Nei grandi referendum nazionali l’irrazionale la fa spesso da padrone. L’ho più volte scritto e lo ripeto: mi auguro che l’Inghilterra resti nell’UE, sia per non diminuirne il peso economico e politico, sia perché l’uscita fornirebbe un argomento prezioso agli entieuropeisti di casa nostra. Ma se esce, bene, facciamocene una ragione. L’Europa è nata e per un certo periodo si è sviluppata senza (anzi contro) l’Inghilterra. Sono convinto che possa continuare a vivere (forse anche meglio) senza di lei.

©Futuro Europa®

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