Caso Regeni, Al Sisi imbavaglia i media egiziani
Anche i regimi non hanno vita facile. Per durare, devono sviluppare attitudini paranoiche all’individuazione di ogni possibile oppositore o cospiratore, proprio perché è dalla radice del complotto e del colpo di Stato che deriva la genesi del regime stesso. Sono passaggi ben noti al dittatore, utilizzatore primo delle sotterranee tecniche di rovesciamento del potere costituito, magari nel nome di libertà e giustizia, o – molto più realisticamente – per brama di affermazione personale. In ogni caso, conquistata la posizione, si presenta poi il ben più arduo compito di mantenerla. Gli strumenti ad hoc non possono essere altri che la centralizzazione del controllo, l’emarginazione degli avversari politici e la repressione di opposizioni, movimenti di piazza e libertà di stampa. Il pretesto è solitamente l’obbligo di garantire o ripristinare l’ordine pubblico, onde scongiurare eventuali embrioni di guerra civile.
Ci sembra che il quadro corrisponda adeguatamente all’odierna situazione egiziana e alle strategie operative del presidente Al Sisi, delle quali abbiamo potuto saggiare i poco ortodossi aspetti grazie al tragico caso del ricercatore friulano Giulio Regeni, torturato e massacrato per giorni, al Cairo, presumibilmente a causa del suo lavoro di analisi giornalistica sul nuovo volto dell’Egitto, dopo l’abbattimento della leadership di Morsi e dei Fratelli Musulmani. Proprio sul brutale omicidio del giovane universitario, il vertice politico e l’apparato giudiziario egiziani hanno inanellato una serie d’incongruenze, ambiguità ed errori, all’inizio percepiti come un’autentica presa per i fondelli, che oggi, alla luce di nuovi riscontri, ci sentiamo di attribuire alla farraginosa approssimazione di istituzioni sotto stress, interessate solo a salvare la faccia con la comunità internazionale e a non compromettere le – tutto sommato – buone relazioni diplomatiche ed economiche con l’Italia.
Dopo l’assenza di condivisione di dati investigativi essenziali con gli inquirenti italiani e la fabbricazione quasi quotidiana di goffi depistaggi e insulse verità per fuorviare l’attenzione da eventuali responsabilità governative, spunta una mail proveniente dal ministero degli Interni egiziano, erroneamente inviata ad alcuni organi di stampa. Il contenuto del documento digitale rivela l’esistenza di un piano segreto, ordito tra le mura ministeriali, per colpire il sindacato dei giornalisti, ostile ad Al Sisi e poco disposto a digerire il recente arresto di due suoi esponenti, Amr Badr e Mahmud al Saqqa. I giornalisti, prelevati durante un blitz della polizia nella sede sindacale del Cairo, sono accusati di aver partecipato alla manifestazione di protesta del 25 aprile scorso, indetta contro l’accordo tra Egitto e Arabia Saudita sui confini marittimi e sul trasferimento di sovranità delle isole Tiran e Sanafir a Riad. Le disposizioni repressive avrebbero dovuto essere la risposta del regime, in tema di gestione dei rapporti con i media, dopo la crisi scaturita dalla cattura dei due. Tuttavia, la novità che riguarda da vicino la Farnesina è che nella mail – secondo alcune fonti, tra cui l’agenzia di stampa statunitense Associated Press – si faccia riferimento anche alla necessità di emettere un ordine di riservatezza sul caso Regeni che perduri fino alla conclusione dell’inchiesta, cosa che confermerebbe la natura volontaria della reticenza mostrata dalle autorità giudiziarie egiziane verso una vera collaborazione con gli investigatori italiani. Il ministero egiziano, a conoscenza delle intenzioni accusatorie di più organi di stampa locali nei suoi riguardi, sta tentando, dunque, d’imbavagliare le voci “scomode”.
Il dicastero è stato addirittura oggetto di critica da parte del principale quotidiano governativo, Al Ahram, attraverso la denuncia delle innumerevoli corbellerie e la stimmatizzazione del “comportamento deplorevole” nei confronti dei giornalisti. Ora, che la trasmissione della mail sia stata un grossolano errore dei funzionari egiziani o il deliberato obiettivo di qualche insider dell’opposizione, poco importa. Il dato rilevante è che l’omicidio di Giulio Regeni abbia letteralmente scoperchiato e portato sul piano internazionale tutte le macchie oscure del Paese nordafricano. Il regime teme che possa trasformarsi in un simbolo per la difesa dei diritti fondamentali dell’uomo e della libertà di stampa, ripetutamente violati sotto la guida di Al Sisi, sempre più preoccupato che non cada il velo di credibilità di cui s’ammanta e che non venga a galla la verità per quella che è. E che tutti noi intuiamo.