Europa, due strani avvocati
Che l’Europa non attraversi un momento felice è evidente. Più che la crisi economica che ci trasciniamo dal 2008, è stata l’immigrazione massiccia dalla Libia e dalla Siria, a metterne in crisi la solidarietà pur necessaria. È significativo che a questionarla siano Paesi che, rispetto ai fondatori, sono gli ultimi arrivati: Austra, Ungheria, Slovenia. Nel 1992, sono stato tra i negoziatori dell’entrata dell’Austra (ricevetti anche un’alta decorazione austriaca per questo; qualche volta mi sento tentato di restituirla). Ricordo bene l’ansia di quel Paese, ma anche di altri, come la Svezia e, ovviamente, la Slovenia e l’Ungheria, per entrare in quello che a quell’epoca pareva il Paese di Bengodi, al di fuori del quale c’erano solo deserto e povertà. Ma la memoria dei popoli è corta ed è tanto comodo cedere al populismo di destra, elevando muri antistorici (però attenzione: parte della colpa ce l’ha chi, specie a sinistra, continua a sottovalutare il problema dell’immigrazione per evitare di prendere misure che pur appaiono indispensabili). Però, come pretendere vera solidarietà a Paesi così lontani e diversi come i Baltici, Cipro, Malta? Paesi con visioni e interessi spesso diametralmentre opposti?
Credo che questa sia la colpevole illusione che è alla base di molti problemi. Nei miei molti anni dedicati all’integrazione europea, sono sempre stato istintivamente contrario a un’ampliamento eccessivo. Ne capisco naturalmente le ragioni politiche e geo-strategiche, ma lo considero egualmente un errore. L’Europa avrebbe dovuto sin dall’inizio limitarsi ad un nucleo centrale (i sei fondatori più la Spagna) con attorno a sé vari cerchi di Paesi associati con modalità diverse e flessibili, ma senza dare loro le chiavi del regno. Non è privo di significato il fatto che l’ampliamento sia stato fortemente appoggiato da Londra come antidoto a un’intensificazione del vincolo confederale. Ora è tardi per pensarci, dobbiamo tenerci l’Europa com’è, un coro spesso discordante, e cercare di trarne il meglio o, almeno, di non lasciarci andare a distruggere tutto quello che è stato costruito in sessant’anni e che resta purtuttavia in piedi.
Tra tanti nemici interni ed esterni (che farebbe Trump se vincesse? Ammesso che abbia una pallida idea di cos’è l’UE, lui che confonde i Talibani con una banca di rock), l’Europa ha naturalmente bisogno di difensori, che per fortuna non sono pochi né irrilevanti, da Hollande alla Merkel e a Matteo Renzi. Ora ha trovato due avvocati francamente inattesi: Papa Francesco e David Cameron.
Con tutto il rispetto che ho per Bergoglio, non ho ben capito perché gli sia stato conferito il Premio Carlo Magno, riservato di solito alle personalità che si sono distinte per il loro contributo all’integrazione europea (l’hanno avuto gente come Adenauer, De Gasperi, Sachumann, Spaak, Emilio Colombo). Non mi risultava che il Papa fosse un europeista convinto e tanto meno che avesse contribuito all’integrazione. Detto questo, il discorso che egli ha pronunciato in Vaticano nel ricevere il premio merita di essere letto con attenzione. In sostanza, il Papa ha accusato l’Europa di comportarsi come una vecchia nonna acida e l’ha invitata a ritornare agli ideali originari ed essere “una madre giovane e generosa”. In principio, nulla da obiettare. Ma ho la fastidiosa impressione che ci sia un equivoco e non si stia parlando delle stesse cose. Per un europeista, tornare agli ideali fondatori significa camminare spediti sulla strada di una più stretta solidarietà economica, culturale, politica. Penso che Papa Francesco abbia in mente soprattutto un’Europa che apra le braccia a tutti i poveri e diseredati del mondo e li accolga nelle sue braccia generose. Ammirevole visione cristiana, ma irrealistica e pericolosa, che, se applicata, non farebbe che aprire la strada ai rigurgiti dell’estrema destra razzista.
Quanto al Premier Cameron, mi ha colpito un suo infiammato discorso, nel quale ha previsto che, in caso di uscita della Gran Bretagna dall’UE, ritornerebbe in Europa lo spettro di una terza guerra. Alla base, una constatazione giusta: l’integrazione europea ha permesso di superare gli antichi conflitti fratricidi, assicurando una pace duratura nel Vecchio Continente. Cameron ha argomentato che qualsiasi problema e conflitto sul Continente toccherebbe prima o poi la Gran Bretagna, che dunque (se interpreto bene le sue parole) ha interesse a restare nel club per contribuire a dirigerne il corso. A dire il vero, la grande riconciliazione ha riguardato Germania e Francia, mentre Londra ne è rimasta ai margini; e penso che non correrebbe grandi rischi con l’uscita della Gran Bretagna, a meno che Cameron pensi che il Brexit provocherebbe il collasso e la dissoluzione finale dell’Unione, essa sì una catastrofe europea e mondiale. E il Premier si è accorto un po’ tardi dei benefici dell’integrazione. Che ora usi ogni argomento, anche un po’ forzato, per non perdere il referendum (ciò che segnerebbe la sua fine politica) va bene, ma non può far dimenticare che l’antieuropeismo inglese è stato, se non creato, certo molto alimentato proprio dai Conservatori e la decisione di convocare un referendum, di cui non era difficile prevedere i rischi, è dello stesso Cameron.
Strani avvocati, dunque. Ma alla fine, tutto serve.