Oliveti “di famiglia”, oro del Mediterraneo
Tutelare gli oliveti ‘di famiglia’: quei terreni di un ettaro, poco meno o poco più, cento-centocinquanta piante al massimo, in grado di soddisfare il fabbisogno annuale di olio alimentare per una famiglia numerosa, che frammentati, riaggregati e di nuovo frammentati per l’effetto di eredità e matrimoni, sono pervenuti con le loro piante secolari fino alle nostre generazioni.
Quanti di noi, anche chi vive nelle grandi città, non hanno avuto a che fare con un terreno ‘al paese’ o con qualcuno che lo avesse ereditato? E chi non ha visto, viaggiando nelle campagne del Centro, del Sud o delle Isole, questi oliveti piccoli o grandi, spesso troppo frondosi e dall’aspetto quasi abbandonato? In un’epoca di riscoperta delle origini e della genuinità alimentare, accade spesso, paradossalmente, che quegli oliveti formati da piante secolari finiscano abbandonati: quasi sempre perché i loro nuovi proprietari, che li hanno ricevuti in eredità, vivono troppo lontano per occuparsene. O, peggio, accade che quegli olivi finiscano nei vivai: dove verranno acquistati come piante ornamentali, pezzi d’antiquariato da giardino, sorta di sculture trafugate dal museo, il terreno che è stata la loro casa per secoli, confinate in un vaso, e tristemente disadorne delle chiome originarie. Che sofferenza, per quei ‘monumenti’ della natura mediterranea e della civiltà contadina: ‘l’olivo vuole terra’, si dice in Sicilia dove le piante di olivo crescono maestose perché non sono state ammassate a cinque-sei metri di distanza come è avvenuto, per sfruttare lo spazio, nelle campagne del Centro Italia. E quegli olivi, invece, chiusi nella terra di un vaso.
Si sa, la raccolta delle olive è onerosa, se non si hanno i grandi numeri capaci di produrre economie di scala. Ma accanto ai piccoli oliveti locali si trovano, spesso, case di contadini, o di operai-contadini, che potrebbero curare e far produrre quegli olivi, se trovassero un accordo coi proprietari a volte sconosciuti. Questi accordi potrebbero fondarsi su uno schema collaborativo/cooperativo, nel quale molti proprietari potrebbero affidarsi ad un unico agricoltore per la cura delle piante e del terreno e per la produzione di olio: in certe zone, infatti, i piccoli oliveti di famiglia ‘tessono’, letteralmente, il territorio. In questo modo, le economie di scala si potrebbero formare. Invece, i piccoli oliveti sono realtà fra loro isolate, che, se non sono abbandonate, sopravvivono a malapena. Il più delle volte, i piccoli proprietari hanno a che fare col settore dell’olivicoltura solo quando portano le olive al frantoio: un coltivatore del luogo invece, aggregando molti oliveti, potrebbe fare assai di più. In alcune zone, è vero, grandi associazioni associano migliaia di produttori: come i 15.000 della cooperativa Capo di Pescara, i 5.000 della siciliana Assolivo, i 3.000 dell’irpina Apooat.
In tutto il Bel Paese, le associazioni di produttori di olio sono innumerevoli. Ma tutto ciò riguarda oliveti strutturati per la produzione, confina a margine migliaia di piccoli oliveti secondari come quelli ‘di famiglia’, e rende poco utilizzata una produzione potenziale di tutto rispetto: che potrebbe avere numeri notevoli, basti pensare alla differenza tra il numero di olivi ‘conosciuti’ dalla produzione, ovvero i 179 milioni di piante censite nel 2010 dal Ministero per le Politiche Agricole, ed il numero di quelli esistenti secondo le grandi associazioni degli agricoltori, che parlano di 250-300 milioni di piante. Non si può solo pensar male, e dire che il maggior numero di piante stimato ma forse irreale serve solo a giustificare la grande produzione nazionale di extra vergine ‘italiano’, che in realtà sarebbe per buona parte importato: è invece lecito pensare che quelle piante almeno in parte esistano davvero, anche se non contribuiscono alle produzioni dei grandi marchi di extravergine. Basterebbe un censimento satellitare per rendersi conto della realtà.
Gli oliveti ‘di famiglia’ insomma sono una risorsa potenziale enorme: per la produzione di olio extravergine, per il reddito degli agricoltori locali, per mantenere il popolamento delle campagne e anche per consolidare i versanti scoscesi e prevenire l’abbandono del territorio ed il conseguente dissesto idrogeologico. Allora perché non tutelarli, questi piccoli e intimi albereti di olivi dalle foglie d’argento? Perché non sostenerli, con incentivi da una parte e accordi cooperativi locali dall’altra? Perché non curarli e farli produrre ancora? Quegli olivi, quasi eterni, quasi sacri, sono oro: l’oro antico del Mediterraneo.
[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]