Brasile e Venezuela, il tramonto dei populismi
Con la sua messa in stato di accusa, il calvario di Dilma Roussef è entrato nella sua fase decisiva. Entro 180 giorni, il Senato dovrà decidere la sua eventuale destituzione. Lei si difende accusando i suoi avversari di perpetrare un colpo di stato. Ma la procedura seguita dal Parlamento è del tutto costituzionale. Magari si può provare una qualche simpatia umana per una persona che si sente vittima e proclama la propria onestà e la propria innocenza. Del resto, l’accusa che le viene mossa ufficialmente non riguarda fatti di corruzione, ma l’aver truccato i conti dello Stato in epoca preelettorale per nascondere la crisi economica e finanziaria già allora in atto. Mentre indagati per corruzione sono molti dei parlamentari che l’accusano.
Però non va perso di vista un elemento importante: l’impeachment avviene sullo sfondo del maggior scandalo di corruzione che abbia afflitto il Brasile, legato alla Petrobras. Il partito di Dilma, il PT-Partido dos Trabalhadores, vi è pesantemente coinvolto, anche se non è il solo, e riesce difficile pensare che Dilma stessa e il suo predecessore, Lula da Silva, non l’abbiano in qualche modo coperto. Vi è un dato chiave: tra il 2005 e il 2010 la Roussef è stata Presidente del Consiglio di Amministrazione della Petrobras. A quel periodo corrispondono gli episodi più scandalosi, tra cui ad esempio l’acquisto di una raffineria negli Stati Uniti a un prezzo 47 volte superiore a quello pagato, due anni prima, dal suo proprietario, la belga OiL Astra. Una parte del prezzo è tornato in Brasile in forma di tangenti. Possibile che Dilma non ne fosse al corrente? Del resto, quattro delle imprese indagate dalla Giustizia l’accusano di aver diretto una specie di “club” volto al “desfalco” (appropriazione indebita) del denaro pubblico ai fini di finanziamento politico. Anche se non si è personalmente arricchita, non può esimersi dalle sue responsabilità.
Vedremo come andranno le cose da ora in poi. Il Vicepresidente Temer, ora Presidente in esercizio, ha un compito difficilissimo. Non è neppure del tutto sicuro che il Senato destituirà Dilma: per farlo ha bisogno del voto di 54 senatori. Nella recente votazione ne ha avuti 55. Sufficienti, ma basta che uno o due senatori cambino di idea che tutto salta.
Da varie parti si reclamano le dimissioni di Presidente e Vicepresidente, che aprirebbero la strada a nuove elezioni. Parrebbe la soluzione più democratica e non escludo che ci si arrivi, anche se Temer pare deciso a restare al potere fino alla scadenza naturale del 2018. Ma il fatto è che le prospettive elettorali sono al momento incertissime, i principali partiti si interrogano sui rispettivi interessi e nessuno ha in mano un candidato veramente forte. Il PT potrebbe ripresentare Lula, che va abbastanza bene nei sondaggi, ma su di lui è in corso un’indagine giudiziaria che, essendo egli decaduto dall’incarico di governo – sconsideratamente datogli dalla Roussef per metterlo al riparo – ha tutte le probabilità di andare avanti nelle prossime settimane e mesi.
Il calvario di Dilma corrisponde alla profonda crisi del populismo in America Latina. Il regime di Lula e della Roussef non ne rappresenta certo l’aspetto peggiore. Per qualche tempo, il Brasile è cresciuto economicamente e socialmente in modo spettacolare, situandosi tra le nazioni di maggior peso economico e politico. Ma ha condotto una politica estera marcatamente antiamericana e antioccidentale, flirtando con Venezuela, Cuba, Iran e prendendo la testa per la creazione di un gruppo di paesi emergenti alternativi agli Stati Uniti e all’UE (i BRIC). Da qui la pretesa che dietro la crisi ci sia la mano dell’imperialismo americano ed occidentale, deciso ad eliminare il progressismo in America Latina. È la formula che conosciamo bene: attribuire ad oscure cospirazioni esterne quelli che sono i frutti della propria incapacità.
Su questo fronte si distingue il capo di quello che è da tempo il principale referente del populismo latinoamericano: lo “chavismo” venezuelano, oggi rappresentato dall’incredibile Maduro. La crisi in Venezuela è molto più grave di quella brasiliana. In Venezuela mancano ormai alimenti, medicine, beni di consumo elementari, l’inflazione e la corruzione sono altissime. Per risparmiare energia, il Governo ha dovuto limitare a due giorni (lunedí e martedí) la presenza sul lavoro dei funzionari pubblici (avete letto bene: due giorni!). Nelle elezioni legislative di dicembre scorso, l’opposizione ha conseguito una schiacciante maggioranza, ora controlla il Parlamento e ha messo in moto la procedura costituzionale per destituire il Presidente attraverso un referendum popolare. Ha raccolto 1,8 milioni di firme, molto più di quelle necessarie, ma il regime resiste. La Giustizia, controllata dagli chiavisti, che dovrebbe verificare le firme, prende tempo, per una ragione tanto semplice quanto indecente. Per la Costituzione, se il Presidente è destituito o se ne va dopo la prima metà del suo mandato (gennaio 2017) gli subentra il Vicepresidente (ovviamente chavista). Altrimenti occorre una nuova elezione, che è naturalmente ciò che l’opposizione reclama. Nel frattempo, Maduro si sta comportando con pericolosa protervia: ha minacciato di espropriare le fabbriche che hanno chiuso le porte (per l’impossibilità di avere accesso ai dollari necessari per l’aquisto delle componenti all’estero) e di mandare i proprietari in galera. E ha minacciosamente invitato le Forze Armate a “tenersi pronte”. Situazione, dunque, differente da quella brasiliana, già che Dilma sostanzialmente resta nella legalità.
Quella venezuelana è dunque la crisi peggiore e le sue sono più incerte e potenzialmente sinistre. La maggiore speranza è che e frenare il regime di Maduro serva l’isolamento in cui si sta trovando nel mondo e anche in America Latina, senza l’appoggio garantitogli in passato dai governi affini di paesi come l’Argentina e il Brasile.