Libia, i crimini dell’Isis e le ambizioni del generale Haftar
Non si ha mai veramente contezza di una situazione, se non si procede a un “fermo-immagine” degli avvenimenti. Sul dramma libico, a scuotere le coscienze e le balbettanti risposte dell’Occidente, subentra un rapporto della Ong Human Rights Watch, osservatorio internazionale che si occupa di rilevare le violazioni dei diritti umanitari nelle aree di crisi afflitte da guerre e da repressione di ogni forma di democrazia.
Il dossier di quarantuno pagine denuncia le brutalità dei miliziani dell’Isis nei confronti della popolazione residente nella porzione di Cirenaica presidiata e controllata dal Califfato, saldamente arroccato nella città costiera di Sirte, strategica per la prossimità alle postazioni petrolifere del bacino omologo, oggi fondamentale risorsa di finanziamento della jihad.
Dal febbraio dello scorso anno, sarebbero 49 le vittime sommariamente punite o giustiziate dai fanatici dello Stato Islamico con i metodi più cruenti e per le motivazioni più futili: si passa dalle fustigazioni pubbliche per aver fumato sigarette o ascoltato musica occidentale, alle decapitazioni, crocifissioni e fucilazioni per accuse di spionaggio, stregoneria e blasfemia. Gli atti dell’Isis sono, dunque, qualificati dall’organizzazione non governativa come crimini di guerra contro l’umanità.
Secondo il report di HRW, alle milizie jihadiste sono stati assegnati tutti i beni, incluse le case, sequestrati alla gente del luogo in fuga dalla guerra; medesima destinazione per medicinali, cibo, carburante e denaro in contanti. I malcapitati rimasti e persino i musulmani che accettano la rigida osservanza della Sharia – la legge islamica – rischiano ogni giorno la pena capitale, se solo sospettati di essere spie, oppositori o infedeli. I miliziani hanno approntato tre carceri e disposto la chiusura delle banche, controllano la comunicazione con l’esterno tramite la gestione degli internet-point e indottrinano le nuove generazioni, cancellando dai programmi scolastici materie come la storia e concentrando le attività di studio prevalentemente sul diritto islamico e i precetti religiosi.
Gli sforzi diplomatici della comunità internazionale e dell’inviato speciale dell’Onu, Martin Kobler, per comporre le divisioni interne e legittimare un unico governo riconosciuto, quello di Tripoli guidato da Al Sarray, non sono in grado, al momento, di spezzare il giogo dell’Isis, in difesa della popolazione locale. L’unico, ossessionato, forse, più dal potere che acquisirebbe con l’assunzione del controllo sui giacimenti di gas e petrolio intorno a Sirte e dal prestigio derivante da una vittoria sugli estremisti sunniti, che non dall’eliminazione di una grave minaccia per il Paese, è il generale Khalifa Haftar, capo dell’esercito libico della Cirenaica, che risponde al parlamento di Tobruk e si rifiuta apertamente di dialogare con Al Sarray sotto il denominatore della stabilità e unità in Libia.
Haftar, probabilmente, pensa che in una situazione di massima frammentazione si celi la reale opportunità di accrescere il proprio potere personale e ritagliarsi un ruolo di primo attore nella Libia che verrà; la riconquista di Sirte aprirebbe la via a un possibile dominio dei militari sulla politica e offrirebbe l’occasione all’ambizioso generale di proporsi come nuovo uomo forte, percorrendo un cammino analogo a quello che fu del suo ex datore di lavoro, Muhammar Gheddafi. Alla faccia di Sarray, dell’Onu e del Califfato.