Più o meno Gabelle
Per abbassare le tasse bisogna aumentare l’Iva. A fine marzo la Corte dei Conti lo ha detto chiaro e tondo: “Per coprire gli sgravi promessi dal governo e affrontare le clausole di salvaguardia, la strada migliore è l’aumento dell’Iva”, insieme alla spending review. Il motivo è semplice: “In Italia il rendimento dell’imposta non raggiunge il 6 per cento del Pil, il livello più basso fra i Paesi Ue”.
Dato ineccepibile, ma i numeri hanno valore solo se comparati ad altri numeri, diversamente sono delle cifre, senza molto significato, magari utili da giocare al Superenalotto. Ecco gli altri numeri, sempre i soliti: l’Italia ha un prelievo sui redditi da lavoro pari al 42,8 per cento, quasi otto punti oltre la media europea e i redditi d’impresa sono spremuti per circa il 26 per cento, quasi il doppio della media Ue. Adesso non serve essere degli esperti di economia per capire che se si alzasse l’aliquota Iva, tutti i consumi sarebbero più tassati e diminuirebbe il potere di acquisto delle famiglie italiane. Soprattutto dei lavoratori dipendenti, proprio quelli che vedono prelevato dallo Stato quasi la metà di quanto riportato in busta paga. Il discorso avrebbe un senso se Renzi intervenisse in maniera decisa sugli scaglioni dell’Irpef, diversamente vale il solito giochino della coperta troppo corta, se la tira da una parte, l’altra resta scoperta.
Al Tesoro limare di un punto percentuale l’Irpef sul 27 e sul 38 per cento costerebbe almeno 3,5 miliardi di euro e i benefici per i lavoratori sarebbero pressoché irrisori. La domanda che l’esecutivo si sta ponendo da mesi, ormai, è come rimpinguare l’eventuale perdita. Nelle scorse settimane si è parlato di riaprire la voluntary disclosure per far emergere i capitali detenuti all’estero. Al di là del fatto che contrastare un’emorragia di denari permanente, perché l’abbassamento dovrebbe essere una misura strutturale, con un’operazione straordinaria e limitata nel tempo è fatica sprecata. Conti alla mano, sempre quelli, la voluntary riporterebbe nelle casse dell’Erario solo 2 miliardi di euro scarsi. All’esecutivo non basterebbero neppure i 3,3 miliardi di euro già stanziati per l’abbassamento dell’Ires, dal 27,5 al 24 per cento.
In questo scenario l’Europa è pronta a puntare il dito. Se i conti non tornano e il deficit non rispetta quanto pattuito con Bruxelles, a Roma le cose si metterebbero piuttosto male. Tra l’altro pare già esaurita la spinta delle nuove assunzioni legate agli sgravi fiscali del Jobs Act. L’Osservatorio sul precariato dell’Inps, pochi giorni fa, ha evidenziato come il taglio delle decontribuzioni sui nuovi assunti abbia prodotto, nel primo trimestre del 2016, un minor numero di assunzioni stabili rispetto al 2015 del 77 per cento. Tirando le somme – perché sennò a furia di parlare di cifre davvero si rischia di dare i numeri – non è scontato che un abbassamento delle tasse sul lavoro debba coincidere con un aumento dell’Iva.
Molto dipende da quanti punti il governo vorrebbe diminuire gli scaglioni Irpef e se confermasse la misura di riduzione dell’Ires. Continuare in maniera decisa la strada dei tagli agli sprechi, con una spending review rigorosa, in stile greco per capirci, certamente aiuta il raggiungimento dell’obiettivo. Diversamente a pagare finiranno per essere sempre i soliti. I lavoratori dipendenti che se scendesse l’Irpef, sarebbero costretti ad usare quel quid in più mica per andare in vacanza ma per pagare l’Iva sul passeggino nuovo del pargolo. La storia della coperta corta, in Italia, sembra restare un grande classico da raccontare. Peccato che ormai non ci sia rimasto più nessuno che la voglia sentire.