Tripoli chiama Putin, Roma con il piede in due staffe

L’efficienza russa sul piano militare non è un mistero. Ne abbiamo avuta ampia dimostrazione nello scacchiere siriano, tanto ingarbugliato da far fallire le iniziative dell’Occidente, spesso depotenziate da obiettivi divergenti sottostanti alla questione umanitaria. Differente è stato l’atteggiamento di Mosca, netto, lineare e, in una parola sempre più desueta dalle nostre parti, coerente. Nel bene e nel male. Putin ha difeso il regime di Assad, cosa discutibile, ma l’ha fatto alla luce del sole, senza ipocrisie, menando giù duro sui tagliagole dell’Isis e punendo come un giustiziere implacabile le connivenze d’interessi instauratesi tra il Califfato e chi lo dovrebbe combattere (riferimenti alla famiglia Erdogan non sono puramente casuali). La schiena dritta, in circostanze in cui gli altri protagonisti esibiscono atteggiamenti ambigui e la diplomazia internazionale iniziative melliflue, sovente premia.

Assad è ancora in piedi e, al momento, vincente, grazie all’Orso russo. Il dato, evidentemente, non è sfuggito al leader del governo libico d’unità nazionale Al Sarraj, il quale, sempre in cerca di piena legittimazione in tutto il Paese, vorrebbe garantirsi una copertura militare adeguata per i tempi a venire. Il ministro della Difesa dell’esecutivo di Tripoli, Mahdi al Barghouthi, ha, dunque, ricevuto nei giorni scorsi Ivan Molotkov, capo della missione russa in Libia, di stanza a Tunisi dall’estate del 2014.

Il sito d’informazione “al Wasat” riporta i termini del confronto, la cui natura è di carattere cooperativo: la Libia cerca il sostegno armato del Cremlino e la risolutezza dello “Zar” Vladimir. Assistenza, formazione e addestramento all’esercito libico fedele a Tripoli, per la maggior parte costituito dalle milizie di Misurata: queste, le richieste di Barghouthi al diplomatico russo, il quale ha dichiarato la disponibilità di Mosca all’appoggio militare per la stabilità interna del Paese e la lotta al terrorismo, pur rimarcando – anche in un successivo incontro con il premier Al Sarraj – l’indispensabilità di un riconoscimento ufficiale del governo d’accordo nazionale da parte del parlamento di Tobruk.

Intanto, l’opera unificatrice di Sarraj compie importanti progressi e il premier porta a casa, dopo Onu e Occidente, anche l’approvazione della Lega araba, assumendo – al suo cospetto – l’effettiva totale rappresentanza della Libia. Il riconoscimento è stato ratificato con l’assegnazione al ministro degli Esteri tripolino, Mohammed Taher Siala, del seggio di rappresentante della Libia in seno al consesso che riunisce i ministri degli Esteri arabi; atto – peraltro – consolidato con l’arrivo imminente, presso la medesima istituzione, del nuovo ambasciatore di Tripoli.

In questo scenario, la linea di condotta adottata dal governo italiano è stata quella del “piede in due staffe”, espressione da non giudicare necessariamente in senso spregiativo. In Cirenaica, unità speciali del nostro esercito, coordinate sul posto dai servizi segreti, starebbero al momento supportando le truppe del generale Haftar, comandante delle forze armate che appoggiano il parlamento di Tobruk. L’apparente controsenso di sostenere militarmente il principale oppositore alla piena legittimità del governo d’accordo nazionale di Tripoli, riconosciuto anche da Roma, affiancando chi ha seccamente liquidato l’azione diplomatica dell’Onu con un lapidario ”Non ho tempo da perdere”, acquista maggior chiarezza, se letta in chiave di lotta all’Isis, di tutela degli impianti Eni presenti nell’area e di osservazione delle eventuali relazioni che andranno a crearsi tra milizie libiche e Paesi stranieri operativi sul campo, come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna.

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