Ballottaggi e politica nazionale
I risultati dei ballottaggi di domenica scorsa mostrano un quadro politico molto disarticolado e disomogeneo ma, nel fondo, non sono difficili da analizzare. Matteo Renzi l’ha già fatto, con inusitata franchezza: successo netto del Movimento 5 Stelle, sconfitta del PD (che sarebbe stata una disfatta se avesse perso Milano e Bologna). E ha avuto il buon senso di attribuire ai voti grillini non un carattere di protesta, ma di cambiamento. Personalmente direi che protesta e richiesta di cambiamento vanno insieme, ma non importa.
Protesta e cambiamento rispetto a che cosa? Rispetto a una politica tradizionale che appare avvitata su sé stessa, tutta intenta alle sue beghe interne o intrapartitiche, perdendo fiato e tempo in discussioni astratte e tutte interne alla casta (in questi la minoranza PD e le varie dissidenze di FI hanno una colpa immensa). E rispetto anche a un Governo che ha promesso più di quanto sia riuscito a mantenere e ha imporsto uno stile personalista che inevitabilmente polarizza lo scontro. La scelta dei 5 Stelle di parlare di problemi concreti, con soluzioni concrete (anche se alcune impraticabili), di mettere avanti una serie di facce nuove e in generale perbene, e di dare nell’insieme prova di onestà, ha pagato.
Altri dati politici non vanno trascurati: dov’erano in ballottaggio PD e 5 Stelle, come a Roma e Torino, gli elettori di centro-destra non sono andati a votare o hanno votato per le candidate grilline, mentre l’inverso non pare sia avvenuto dove era il centro-destra ad affrontare la sinistra. Segno che i 5 Stelle restano un corpo estraneo alla politica tradizionale e non accettano compromessi o alleanze esplicite con nessun altro, Lega compresa. La volontà di non fare alleanze può essere il più delle volte un limite, ma in certi casi può rivelarsi una buona carta. Altro dato evidente e importante: per la prima volta, i grillini governeranno due grandi città, oltretutto con due giovani donne relativamente inesperte. Sono due situazioni molto diverse l’una dall’altra. Torino, per generale ammissione, era ben amministrata, e il mio vecchio amico Fassino ha pagato per la situazione generale, non per demeriti suoi. Roma era un disastro che le amministrazioni Alemanno e Marino hanno portato al parossismo. Vedremo se Virginia Raggi riesce a dare un segnale di vera e forte discontinuità. Da romano nel cuore, me lo auguro. Poi c’è il caso di Napoli: le dichiarazioni di De Magistris dopo la riconferma sono state così proterve da giustificare l’opinione pessima che ne avevamo. Come ha ricordato il Direttore del Mattino, solo un terzo dei napoletani ha votato, il che non toglie legalità, ma certo legittimità politica, al Sindaco rieletto. Rappresenta comunque un caso del tutto isolato, in cui una sinistra populista riesce a vincere. Altrove, ha fallito miseramente.
Ma andando al di là di queste considerazioni, se ne impone una sopra le altre; l’elettorato italiano è ormai diviso in quattro parti: gli astenuti, il centro- sinistra, il centro-destra, i 5 Stelle. La prima parte è la più numerosa. Quanto alle altre tre, non esistono numeri nazionali attendibili che ne misurino la forza rispettiva, sia per l’esistenza nelle passate elezioni di liste civiche, sia perché i 5 Stelle non si sono presentati in tutti i comuni. Supponiamo che, grosso modo, ci sia una parità. Questa considerazione impone un’attenta riflessione al PD e al centro-destra. Lo ha detto a Porta a Porta Maurizio Lupi e sono del tutto d’accordo con lui; tra l’altro, sulla legge elettorale che era stata tagliata e cucita a misura sull’ipotesi di un ballottaggio PD-Forza Italia, mentre ora l’ipotesi verosimile pare piuttosto di uno scontro PD-5 Stelle, dall’esito quanto mai incerto. C’è tempo e margine per modificare la legge (per esempio passando dal premio di lista al premio di coalizione)? Se ci si pone nell’ottica del 2018, sì. Se si va a votare prima, no. Non c’è ovviamente tempo per modificare le riforme istituzionali rendendole più logiche e accettabili. Peccato! Con pochi ritocchi (l’ho scritto più volte) Renzi, se non lo avesse vinto la “hubris” – andrebbe sul sicuro. Ora gli resta un tempo molto breve per convincere gli italiani, magari riportando al voto la larga massa di quelli che hanno disertato domenica scorsa le urne. Può farlo depersonalizzando lo scontro (come da alcune parti gli viene consigliato)? No, ormai è tardi, e d’altra parte annunciare il proprio ritiro in caso di sconfitta del Sì è logico e democratico (se non lo avesse fatto lui stesso, glielo reclamerebbe l’opposizione).
Ma la domanda basica è questa: davvero centro-sinistra e centro-destra, Renzi e Berlusconi, vogliono far correre al Paese il rischio di finire nelle mani di Beppe Grillo? Perché questa è una seria probabilità: se al referendum vince il No, Renzi se ne va e il Presidente Mattarella indice nuove elezioni, con la legge elettorale in vigore. Per cui non riesco a capire l’accanimento della destra a favore del No. Ammenoché nei disegni berlusconiani non via sia un nuovo governo di unità nazionale, due volte formato e due volte fatto saltare da Berlusconi stesso. E sempre che il PD (guidato da chi, se Renzi se ne va?) sia d’accordo.
È dunque più che evidente che i risultati di domenica devono far riflettere i partiti tradizionali. Non sappiamo in che senso andranno queste riflessioni. Possiamo affidarci alla saggezza o almeno all’istinto di sopravvivenza del PD e del centro-destra? Ho molti dubbi, ma si sa, “spes ultima dea”.