Dacca, profilo di “nuovo miliziano” e allarme Intelligence
Sono rientrate in patria le salme delle nove vittime italiane di Dacca: ad attenderle all’aeroporto di Fiumicino, il Capo dello Stato Mattarella, rientrato anticipatamente da un tour di visite ufficiali in Messico e Sud-America. Il ministro degli Esteri Gentiloni tende a escludere la tesi secondo la quale, in Bangla Desh, i gruppi terroristici locali abbiano nel mirino gli italiani, ma certamente – laggiù come altrove – gli stranieri occidentali rappresentano dei probabili bersagli.
Con l’Isis in forte arretramento – dalla Siria alla Libia, passando per l’Iraq – lungo i presidi territoriali rapidamente instaurati dal giorno della sua comparsa sullo scenario internazionale, si moltiplicano le cronache di tragici attentati in giro per il mondo. E’ un segno evidente di frustrazione, da parte del Califfato, per la propria inferiorità e incapacità militare a difendere e, semmai, estendere le posizioni acquisite. Per tenere alta l’attenzione sulla causa jihadista e mascherare le numerose sconfitte sui vari teatri di guerra, allo Stato Islamico non rimane che giocare la carta del terrore, istigando e rivendicando attacchi condotti da piccole cellule autonome o, talvolta, da “lupi solitari”, identificati come foreign fighter di ritorno dal fronte nel proprio Paese d’origine. Colpi di coda, quando tutto il resto sta andando in tilt, tuttavia molto pericolosi, poiché il nemico senza volto, mimetizzandosi ai nostri occhi, nel momento di agire, nonostante l’allerta e i controlli delle forze di sicurezza, è in grado – con riguardo al come, dove e quando – di poter contare quasi sempre sull’elemento sorpresa, lasciandoci ineluttabilmente spiazzati, disorientati e in compagnia di una sgradevolissima sensazione d’impotenza.
La triste novità, appresa dalla drammatica strage di Dacca, è l’emergere del profilo di un “nuovo” tipo di miliziani: li abbiamo spesso immaginati come individui disperati, analfabeti, poveri, ai margini del sistema sociale, senza nulla da perdere e che trovano, infine, un significato al tutto nell’integralismo islamico e nel martirio personale in nome della “guerra santa”; li abbiamo pensati come facile oggetto di reclutamento nelle madrasse, le scuole coraniche in cui fanatici imam influenzano le menti dei seguaci con prediche sanguinarie, oppure nei malsani ambienti carcerari, dove – per sopravvivere – abbracciano il rinnovamento interiore offerto dalla conversione al fondamentalismo islamico e, poi, il riscatto finale col sacrificio della loro stessa vita.
Al contrario, oggi, i terroristi bengalesi, tutti di giovanissima età, si presentano a noi nelle vesti di soggetti provenienti da ceti della medio-alta borghesia, con corsi di studio presso scuole private e grande padronanza nell’uso della tecnologia, dei dispositivi informatici e della comunicazione in rete, quali strumenti organizzativi e di coordinamento per le proprie azioni. Hanno pianificato ed eseguito il massacro nel quartiere delle ambasciate di Gulshan, a Dacca, a seguito della loro radicalizzazione in Internet, frequentando siti web gestiti da predicatori molto abili nell’arte del plagiare e pieni di montaggi video in cui sono rappresentate – e qui bisogna essere onesti – le porcherie di cui, per tanti anni, si è imbrattato il neo-colonialismo occidentale nelle terre dell’Islam. Armare d’odio – attraverso le crude immagini del piccolo naufrago curdo Aylan, riverso a faccia in giù sulla battigia di una spiaggia turca a Bodrum, oppure tramite i filmati di corpi straziati dai bombardamenti su Gaza – le menti plasmabili di ventenni in cerca di una direzione, è, per i sultani e gli agitatori che finanziano e fomentano l’integralismo, un gioco da ragazzi.
Sull’incursione dei sei killer al ristorante, in cui hanno trovato la morte anche sette giapponesi, le autorità bengalesi sono arrivate a dire che l’Isis non c’entra e che i responsabili dell’assalto s’inseriscono in un quadro di terrorismo interno al Paese, in cui aspirare ad essere un miliziano integralista stia diventando una cosa “alla moda”.
Sarà, ma le ripercussioni sui cittadini normali – sia che scaturiscano da Daesh che perde terreno, sia che derivino da un più pittoresco fatto di moda e tendenza – turbano profondamente il nostro vivere quotidiano e la libertà di viaggiare e lavorare, in patria come all’estero.
L’intelligence italiana avverte sul rischio che, in Bangla Desh, i nostri connazionali costituiscano dei bersagli permanenti. Molti di loro abbandonano attività radicate laggiù da anni e stanno, ora, provvedendo al rientro nello Stivale. Di questi tempi, gli occidentali residenti in quelle parti di mondo connotate dalla fede islamica non hanno rassicuranti garanzie di protezione e sono esposti a ogni cambio di vento. La lotta al terrore deve necessariamente prendere atto dell’evoluzione riscontrata nelle più aggiornate tecniche di reclutamento alla jihad e sbarcare in rete con determinazione, efficacia investigativa e capacità di prevenzione, affinché questa resti uno strumento di divulgazione di valori positivi e conoscenza e non si trasformi in un veicolo fuorviante di distruzione e manipolazione.