Soweto, difficile perdonare

Quarant’anni dopo la rivolta studentesca nella township di Soweto, fare la pace  è ancora difficile.

Il 16 Giugno 1976, migliaia di scolari e studenti di Soweto invadono le strade del ghetto nero per protestare contro l’introduzione dell’insegnamento interamente svolto in afrikaans, la lingua dell’oppressore bianco. I ragazzini con la divisa della scuola brandiscono slogan scritti su improvvisati striscioni di cartone: “al diavolo l’Afrikaans”, “l’afrikaans puzza”. La polizia viene presa da panico e spara, gettando benzina sul fuoco nelle altre township. In pochi mesi, la repressione causa la morte di 500 persone e rivela al mondo l’asprezza del regime segregazionista che cadrà solo nel 1994. Per il quarantesimo anniversario della rivolta, momento chiave nella lotta contro l’apartheid, Dan Montsitsi, uno dei leader del movimento, e i suoi compagni di lotta hanno partecipato per la prima volta dentro Soweto, a una “marcia per la Pace” al fianco di ex soldati, all’epoca al servizio del regime dei bianchi. E’ stata la prima di un evento nero e bianco, non sportivo, a Soweto. Ma diverse famiglie delle vittime sono insorte contro questa commemorazione, affermando che veniva così leso il rispetto nei loro confronti e in quello delle vittime, come afferma con forza Granny Seape, sorella di Hastings Nldovu, ucciso il 16 Giugno del 1976 a 17 anni da un colpo di arma da fuoco alla testa.

Per gli ex soldati – giovani bianchi costretti a partire a 18 anni per il servizio militare e spediti nelle township per affiancare la polizia nel periodo più violento dell’apartheid – si è trattato innanzitutto di lenire una ferita del passato per poter guardare al futuro. Tra loro Jan Malan, 59 anni, a capo dell’Associazione delle Forze di Difesa (SADFA) che conta un migliaio di membri. Spiega Malan che “molti veterani sono oggi nonni, e si sentono in dovere di trasmettere ai propri nipoti un nuovo paradigma: non odiarsi gli uni e gli altri, ma lavorare insieme”. Ecco perché per loro questa “marcai della Pace” a Soweto era così importante. Ma come curare delle persone che sono state ferite per colpi di arma da fuoco nel 1976 e oggi si trovano inchiodate ad una sedia a rotelle? La loro vita si è fermata quel giorno”, afferma con forza Dee Mashinini, il cui fratello era leader della rivolta. Lei ha deciso di non partecipare alla marcia e alle preghiere allo stadio di Orlando, organizzata dalla Fondazione del 16 Giugno 1976 e il potente Consiglio sudafricano delle chiese (SACC), molto impegnato politicamente nella lotta contro l’apartheid. Ventidue anni dopo l’avvento della democrazia in Sudafrica, il cammino verso la riconciliazione sembra essere ancora lungo. “Non siamo guariti” constata Pieter Bezuidenhout, autore de La generazione dei coscritti alla ricerca della guarigione, riconciliazione e giustizia sociale.” Per l’autore è come quando in un matrimonio avviene un’infedeltà, “ci vuole molto tempo per riconciliarsi, per creare nuovamente la fiducia”.

Per chi ha vissuto quell’era buia, per molti Bianchi sudafricani l’apartheid ha avuto l’effetto di un lavaggio al cervello . Quando vedono un Nero, pensano che sia un ex terrorista o una persona pericolosa. Se oggi un Nero compra una casa accanto a quella di un Bianco, dopo tre mesi quest’ultimo ha traslocato, spiegano coloro che un tempo sono stati torturati e messi in prigione. Non si è ancora riusciti a correggere le diseguaglianze economiche ereditate dall’apartheid. Quarant’anni dopo, la diffidenza è ancora molta, e i malintesi persistono anche tra coloro che cercano la riconciliazione. Secondo i supersiti della rivolta, molti ex soldati di leva sentono di aver agito male e dopo la marcia sarebbero stati pronti a confessarsi. Ma i diretti interessati non la pensavano proprio così. “Non siamo venuti per dire che siamo dispiaciuti”, ha detto con una punta di indignazione Jan Malan. In quanto soldati di leva, “non abbiamo fatto nulla di male”, puntualizza un altro ex soldato, Louis Gerber. “Abbiamo applicato degli ordini. Andavamo nelle township per mantenere l’ordine. Il 16 Giugno del 1976 è stata la polizia a sparare sui ragazzi, non l’esercito, ricordano gli ex soldati. La polizia, invitata alla marcia, non ha risposto all’invito. E questo fa pensare.

La loro assenza non contribuisce a ricostruire una Nazione ancora polarizzata, ma per molti la presenza di ex soldati è un passo decisivo. Quel piccolo gruppetto di persone ha portato a termine la marcia che gli studenti non erano riusciti a finire. “Oggi la polizia ci aiuta”, constata il reverendo Chikane il giorno della commemorazione, indicando due poliziotti a cavallo, che seguono la “marcia per la Pace”. Uno è Bianco, l’altro Nero. Se quel tragico 16 Giugno 1976, gli slogan erano “l’Afrikaans puzza”, durante la marcia dello scorso 11 Giugno si leggeva “uniamoci per formare un tutt’uno” e “l’unità nella diversità”. Ma l’unità in Sudafrica, Paese tramortito da decenni di discriminazioni verso la maggioranza nera, ha mostrato i suoi limiti. Lo stadio di Soweto, dove sono intervenute diverse personalità, tra le quali il sindaco di Johannesburg, era quasi vuoto. Solo qualche centinaia di persone – Neri e Bianchi – si sono mosse. Una goccia d’acqua se pensiamo che lo stadio contiene fino a 40.000 persone. Per il reverendo Zipho Siwa, presidente del SACC, la debole partecipazione è la prova di quanto sia “necessaria” la riconciliazione, 22 anni dopo la fine ufficiale del regime segregazionista.

Vero è che la gente non è mai pronta per passare dalle parole ai fatti. Soprattutto quando ha subito tanto. Molti covano ancora rabbia, in tanti hanno cicatrici ancora aperte. Ma questa marcia a metà non deve scoraggiare, deve essere vista come l’invito ad andare avanti per una strada che non ha fatto che cominciare.

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