Il potenziale nascosto del Somaliland

Non  riconosciuto dalla comunità internazionale, il Somaliland è un territorio  sconosciuto per molti investitori. Alcuni segnali mostrano che però qualcosa sta cambiando.

Come in tanti Paesi musulmani, nel cuore della capitale Hargeisa il richiamo per la preghiera del pomeriggio vuota le strade. Rimangono i rami disadorni di khat, la droga dei “poveri” e decine di mucchi di banconote  sorvegliate con poca attenzione. Bisogna mettere insieme 7500 scellini del Somaliland in piccolo taglio per cambiare un dollaro. Da qui la presenza di un gran numero di carriole in possesso dei “banchieri”. Se il Somaliland produce la sua moneta, questa purtroppo non vale molto. L’economia di questo Paese, non ancora riconosciuto dalla sua autoproclamata indipendenza dalla Somalia nel 1991, è allo stremo. Il bilancio dello Stato si limita, quest’anno, alla modica somma di 300 milioni di dollari. Con il 75% di disoccupazione tra i giovani, e un PIL per abitante che arriva stentatamente nel 2012 a 347 dollari, secondo la Banca Mondiale, la popolazione vive grazie alla valuta inviata dalla sua diaspora, soprattutto britannica. Unica vera economia: l’export di bestiame vivo verso il Medio Oriente. Rappresenta da solo quasi un terzo delle entrate nazionali.

E’ su questa risorsa naturale che Abdirikaz Mohamed Mohamoud ha puntato tutto quando nel 2009 ha creato nel Paese la prima impresa di lavorazione di carne halal. Subito dopo nasce la prima fabbrica di prodotti lavorati espressamente per l’esportazione. “vendere il bestiame frutta poco. Trasformarlo in carne, è un valore aggiunto e significa anche centinaia di posti di lavoro”, spiega l’uomo d’affari, anche lui proveniente dalla diaspora britannica. Nel 1974 i suoi si trasferiscono in Inghilterra, lui ha sei anni. Tornerà in Somaliland solo nel 1998. “Ho realizzato allora che qui era tutto da costruire, che c’era un potenziale immenso”.

Contrariamente alla vicina Somalia e alla sua capitale Mogadiscio, lo Stato del Somaliland è riuscito a pacificare il Paese dopo la guerra civile del 1988, e ad allontanare la minaccia degli estremisti Al-Shabaab. Da allora ci sono state quattro elezioni. Con l’esistenza di un Parlamento, di una moneta, di un passaporto, una polizia e di un esercito, troviamo tutti gli ingredienti propri di una Nazione. “ma senza un riconoscimento ufficiale, nessuno osa andare ad investire”, afferma Abdirikaz. Qui la moneta non ha valore di valuta, nessuna banca internazionale ha una sua sede, non è possibile registrare la propria impresa, né assicurare i propri beni. “Il mondo non sa che esistiamo, fanno un tutt’uno con la Somalia. Pensano islamisti, violenza, attentati”, sottolinea l’ex espatriato che crede, malgrado tutto, nel suo progetto.

Abdirikaz Mohamoud contatta tante imprese, ed è la Malesia a rispondere. Insieme, hanno firmato una joint venture chiamata Tayyib (che in arabo significa buono, sano, rispettoso della legge, ndr) Quality Meat. Syed Abdul Rahim ne diventa nel 2013 capo operatore. Il malese non è alla sua prima esperienza in campo di mattatoi. Nell’industria della carne, l’uomo ama lasciar credere che la sua presenza sia indispensabile. Nel cantiere del futuro mattatoio, nella periferia di Buarao, la seconda città dello Stato, Syed è padrone indiscusso. “Le macchine e gli utensili arrivano da Dubai o dalla Germania. Rispettiamo scrupolosamente gli standard internazionali concernenti le norme igieniche perché facciamo riferimento al Codex  alimentarius (regole e informative elaborate da una Commissione della Fao nel 1963 con l’obiettivo di salvaguardare la salute dei consumatori). Abbiamo inoltre regole molto severe sul benessere del bestiame”, afferma con sicurezza Rahim, paragonando il mattatoio della città  ad un “film dell’orrore”.

Uomo d’affari  tunisino, Mohamed Turki ha aperto la sua impresa famigliare a Dubai. La sua è un’impresa specializzata nella costruzione di fabbriche agroalimentari. Ha costruito impianti in Algeria, Irak e Afghanistan. Il Somaliland è un altro paio di maniche. “Lavorare lì non è immaginabile. Non c’è nulla. Tutto viene importato. Bisogna calcolare il numero esatto di attrezzi, avere in mano anche la minima vite è fondamentale”. Ma malgrado tutto pensa in un prossimo futuro lanciarsi in un progetto in quel posto dimenticato da tutti perché “ci vuole un po’ di follia pensarci, è vero, ma c’è un immenso potenziale”. Quando lo stabilimento sarà operativo, 300 operai assunti in loco lo faranno lavorare 24 ore su 24. Ogni turno durerà 8 ore e vedrà lavorate 1000 tra pecore e capre, 100 cammelli e 100 buoi. La carne lavorata verrà inviata in Medio Oriente, soprattutto negli Emirati Arabi e Arabia Saudita, oltre che in Malesia. Abdirikaz immagina già il futuro. Spera espandersi nel Sud Est asiatico e in Europa. Ha da poco saputo che il porto di Berbera, sulle rive del Golfo di Aden, verrà rinnovato. E’ il gigante Dubai Ports World che ha sottoscritto il contratto. Più di 400 milioni di dollari verranno versati nei prossimi 30 anni per riabilitare il sito.

L’arrivo di DP World è visto come manna dal cielo per Abdirikaz perché se la sua società è in grado di occuparsi del trasporto verso Berbera e dello stoccaggio in container frigorifero, è cosciente della limitatezza delle infrastrutture del porto e di come questo investimento cambierà radicalmente le cose. Il porto di Berbera si trova in acque profonde. E’ stato costruito nel 1969. Anche se obsoleto funziona ancora. Montagne di pneumatici, sacchi di cipolle, travi metalliche, tutte le derrate necessarie al Paese passano da questo porto. Anche i sacchi di grano del Programma Alimentare Mondiale a destinazione Etiopia passano di qui. Omer Abokor Jama, Direttore aggiunto del porto, ricorda che “la priorità numero uno rimane sempre l’export di bestiame”. “Appena si intravede arrivare un cargo egiziano o saudita, viene liberato immediatamente lo spazio, qualsiasi operazione viene congelata in attesa che gli animali vengano imbarcati dopo la quarantena e le visite veterinarie”, precisa Jama. L’arrivo di DP World è una vera possibilità di riscatto per l’impresa di Abdirizak, ma è anche un importante segnale per gli imprenditori e investitori stranieri, fino ad oggi molto freddi davanti alla scommessa Somaliland. Il “non Paese” può oggi affermare con orgoglio aver attirato i primi giganti dell’industria.

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