Referendum Ungheria: No ai migranti
Che l’Unione europea stia dando segni di incertezza e difficoltà decisionale, lo avevamo già notato da qualche tempo. Nell’ultimo anno, in particolare, l’emergenza migranti ha aggravato la situazione, diffondendo malcontento e confusione nell’opinione pubblica. Come si sa, ogni Stato membro vive della propria storia, di uno stile di vita a sé e di una situazione sociopolitica ben precisa, che porta i capi di governo a fare delle scelte a volte impopolari e drastiche. Dopo aver cominciato con l’exploit della Brexit, pochi giorni fa è stata la volta dell’Ungheria di Viktor Orban.
Lo scorso 2 ottobre, i cittadini ungheresi si sono recati alle urne per votare il referendum sulla gestione nazionale del tema migranti in Europa. Il quesito recitava: “Volete che l’Unione europea decreti il ricollocamento obbligatorio dei cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del Parlamento ungherese?” Espresso in questi termini, il referendum sembrava chiaramente orientato verso l’ufficializzazione del “no” al progetto UE di redistribuzione dei migranti per quote nazionali obbligatorie. Il governo, rappresentato dalla solida figura di Orban, ha voluto così cavalcare l’onda del malcontento, puntando sulla tendenza antieuropea di buona parte della popolazione, pensando di portare a casa il successo senza troppe difficoltà. Ma non è stato proprio così: sebbene la percentuale dei “no” abbia registrato un notevole 98%, in realtà ad andare a votare è stato solo il 43% della popolazione, rendendo nullo un referendum a cui serviva il 50% più uno per essere ritenuto legalmente valido.
Quello che si annunciava come uno “schiaffo” a Bruxelles molto dolente, adesso sembra descrivere la condizione di un paese spaccato a metà. Tuttavia, l’abilità di Viktor Orban è stata quella di cogliere immediatamente il messaggio politico delle votazioni, definendo tale sconfitta semplicemente come una vittoria nel lungo periodo. «Oltre 3 milioni di elettori hanno rifiutato un sistema di ricollocamento dei migranti, e Bruxelles dovrà tenerne conto», ha dichiarato il premier ungherese, aggiungendo che «l’Ungheria è stato il primo fra i paesi dell’UE a consultare il proprio popolo sulle migrazioni, e sfortunatamente l’unico». Insomma, il suo obiettivo è di mantenere forte la scia della disapprovazione, pur sapendo che tale consultazione non avrebbe avuto valore giuridico per le istituzioni UE anche se fosse stato convalidato dalla commissione nazionale ungherese. Dal canto suo, l’Europa si è già espressa sul tema in maniera precisa, col presidente del Parlamento europeo Martin Schulz che ha definito la strategia politica di Orban “un gioco pericoloso”, riguardante la redistribuzione di appena 1300 profughi dei 160 mila accolti inizialmente da Italia e Grecia.
Sulla base di questo “plebiscito”, seppur incompleto, Viktor Orban ha annunciato di voler dare inizio a un’azione legislativa di riforma costituzionale, oltre a condurre negoziati con l’UE per esentare l’Ungheria dall’obbligatorietà di ricevere persone non gradite al proprio popolo. E a dare manforte a tale strategia di difesa dei valori cristiani contro i “profughi-terroristi”, Orban trova l’appoggio del gruppo Visegrad, la coalizione di quattro paesi dell’Europa centrale (Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria) che si oppongono insieme alle politiche di accoglienza dell’Unione europea.
Un’altra mossa intelligente del premier ungherese è stata di porre la questione del referendum come un ultimatum ai propri cittadini, chiedendo loro di scegliere tra Bruxelles e Budapest. I risultati del voto hanno significato per lui la vittoria del sentimento nazionale, dandogli in questo modo l’autorizzazione per una proposta di modifica alla costituzione, che definisca come “anticostituzionali” le quote di redistribuzione, liberando il proprio popolo dall’invasione islamica. Dunque, Orban vuole tenere duro sia tramite una presa di posizione contro l’UE per avviare un processo di ritorno al nazionalismo conservatore, sia per sondare i consensi al governo in vista delle prossime elezioni politiche. Se tale strategia di comunicazione resterà solida, ciò non toglie che in pochi mesi o anni Orban potrebbe riuscire a convincere quella fetta di popolazione scettica, che non si è recata alle urne a firmare il proprio “no” ai flussi migratori.
Fino ad ora, la politica di chiusura ai migranti dell’Ungheria è stata tra le più dure di tutta Europa. Le immagini della rete metallica ai confini meridionali del paese nel 2015, per respingere i profughi lungo la rotta balcanica, hanno mostrato al mondo la durezza del governo nel boicottare ogni forma di accoglienza; Amnesty International lo ha definito come un “orribile comportamento” contro i diritti umanitari. E difatti, per un paese membro dell’Unione europea che dovrebbe condividere i valori di base del rispetto della dignità umana, tutto ciò sembra un controsenso molto forte. O semplicemente un avvertimento all’Europa, per coglierne il malcontento e darsi una mossa nel riscrivere da zero le proprie politiche di sostenibilità economica e sociale.