Kenya, il campo profughi di Dadaab

Lontano dai riflettori puntati su Calais e la sua  “Giungla”, che viene lentamente svuotata dai suoi sfortunati abitanti, a Dadaab, uno dei più grandi campi profughi del mondo che le autorità keniote stanno smantellando in sordina, i rifugiati somali, ipoteticamente “liberi” di andarsene volontariamente, sono invece indotti a tornare da dove sono fuggiti.

Dadaab, dove si trovano 275.467 persone, si sta svuotando dai suoi rifugiati somali. E questo, secondo un rapporto di Medici Senza Frontiere (MSF), “Daddab, ritorno forzato in Somalia”, in violazione dell’accordo tripartito, firmato nel 2013 dal Kenya, la Somalia e l’Alto Commissariato per i Rifugiati (HCR), che prevedeva un aiuto a chi tornava a casa volontariamente. Perché, secondo un’inchiesta condotta dall’ONG, l’86% delle persone interrogate hanno dichiarato non voler tornare in Somalia. “La sicurezza, l’accesso ai servizi sanitaria, all’istruzione e al minimo per sopravvivere per quanto riguarda il cibo, l’acqua e la casa, sono per loro la più grande preoccupazione”, sottolinea il rapporto. Dadaab, che ha accolto fino a mezzo milione di persone nel 2011, è formato da sei campi. La maggior parte dei somali hanno cominciato ad arrivare nel 1991, durante la guerra che ha visto cadere il dittatore Siyad Barré, e si sono istallati nei campi di Ifo, poi a Hagadera e Dagahaley. Tra le stradine insalubri dove sono state costruite casupole di lamiera e terra, si trovano scuole, mercati, una clinica. Malgrado la durezza delle condizioni, si è creata una sorta di “vita” in questa gigantesca prigione a cielo aperto. In seguito, coloro che fuggivano dagli Shebab, dalla fame o da altri Paesi, sono stati assegnati ai campi di Kambioos e Ifo-2 e 3, dove però sono state autorizzate solo tendopoli.

Ma, secondo l’HCR, dall’8 Dicembre del 2014, 32.949 somali sono rientrati nel loro Paese, 26.848 dei quali nel 2016, e 26.819 hanno confermato la loro intenzione di andarsene. Il problema è che sembra che la scelta noi sia del tutto spontanea. Secondo alcuni testimoni parrebbe che gli sia stato semplicemente detto che dovevano andarsene e che molti hanno fatto questa scelta perché messi alle strette e per la paura di ritorsioni in caso restassero. Se l’Alto Commissariato per i Rifugiati insiste sul fatto che la decisione deve essere assolutamente personale, per che il Governo keniano voglia chiudere il campo il più presto possibile. A chi viene chiesto “cosa succederà”, risponde “le Nazioni Unite troveranno una soluzione…”. Lo scorso Settembre l’organizzazione HUmans Rights Watch aveva evidenziato che la procedura di evacuazione era basata “sulla paura e la disinformazione e non rispettava i criteri internazionali”. I rifugiati temono l’espulsione e nessuna informazione viene loro data sulle possibilità di rimanere in Kenya, o sulla reale situazione della Somalia. “In pochi scelgono veramente di andarsene e molti sono stressati perché non sanno cosa potrebbe succedergli”, spiega uno psichiatra a Dadaab per MSF. Il medico sottolinea che i suoi pazienti, molti dei quali traumatizzati dalla guerra e la prigionia, sono preoccupati per il fatto che non potranno più essere curati.

Diverse ONG che operano sul campo, da Save The Children al Consiglio norvegese per i Rifugiati (NRC), hanno chiesto di essere ricevuti dal Governo keniano per sapere se potevano restare o no, ma gli è sempre stato negato il confronto diretto e il Governo ha sempre risposto “no” alla prosecuzione dei progetti per “motivi di sicurezza”. Tra l’altro l’NRC ha accusato il Kenya di violare le leggi internazionali, procedendo ai rimpatri “forzati”.La pressione esercitata su più di 280.000 residenti registrati a Dadaab ha condotto a rientri disorganizzati e caotici, spiega Jan England, Segretario Generale dell’organizzazione norvegese. Rientri che non sono né “volontari”, né dignitosi e non rispettano alcuna regola di sicurezza. Per l’ONG, il Kenya viola le leggi internazionali sul rimpatrio dei rifugiati. A Settembre, HRW ha anche ricordato che la Convenzione del 1951 sullo statuto di rifugiato vietava l’espulsione di questi ultimi verso un luogo dove la vita e la libertà sono minacciate. La replica del Ministro degli Interni del Kenya, Mwenda Njoka, è stata sibillina: “E’ assolutamente falso asserire che il Governo obbliga i rifugiati a tornare nel loro Paese. Lavoriamo con l’HCR e il Governo somalo affinché rientrino nei luoghi più sicuri della Somalia.”

Nell’ultimo rapporto dell’HCR si fa notare che i voli per Mogadiscio sono stati sospesi il 25 Settembre “per motivi di sicurezza”, ma che “le partenze riprenderanno appena il contesto migliorerà”. Le autorità sottintendevano il 10 Ottobre. Ma, il 19, i ribelli islamici somali attaccavano Afgooye, città snodo situata ad una trentina di chilometri a nordovest della capitale. Cosa che non ha affatto toccato il Governo keniota, che non demorde dalla sua decisione, annunciata lo scorso 6 Maggio, di smantellare il campo entro Novembre. Oltre a dare motivazioni economiche ed ecologiche, afferma che il campo sia un “santuario” per gli Shebab, ribelli islamisti  somali responsabili di aver commesso numerosi attacchi in Kenya. I più gravi ricordiamo sono stati quello del Centro Commerciale Westgate di Nairobi, dove nel 2013 persero la vita 72 persone e quello del 2015, all’Università di Garissa, che causò la morte di 158 studenti. Ma sono proprio gli Shebab che i somali temono di ritrovarsi in casa. Tra le 838 persone intervistate da MSF, l’83% definisce la Somalia “molto pericolosa”, più del 96% mette in evidenza l’alto rischio di attentati ed esplosioni e più del 97% pensa che ci sia un rischio elevato di arruolamento di forza nei gruppi armati, soprattutto per i bambini di chi tenta il rientro.

Molti sono i giovani nati nel campo, Dadaab è casa loro e non conoscono altro, anche perché il Kenya non ha mai autorizzato la loro presenza sul suo suolo. Secondo l’HCR, per il 60% della popolazione del campo che ha meno di 17 anni, non si tratta di un ritorno in Somalia, ma di un esodo verso un Paese sconosciuto. Nelle scuole delle ONG a Dadaab, hanno studiato la storia e le istituzioni del Kenya. A chi è partito sono stati dati 200 dollari (ai quali vanno ad aggiungersi 200 dollari all’arrivo), ma non bastano per sopravvivere a chi ricomincia da zero. Inoltre, secondo l’HRW, al problema della sicurezza si aggiunge quello delle risorse, insufficienti a far fronte a tale flusso di arrivi in un Paese prostrato da più di un milione di profughi e dove cinque milioni di persone sono minacciate dalla carestia.

Dalla fine di Agosto, il Jubaland rifiuta di accogliere i rifugiati di Dadaab, asserendo che le risorse umanitarie sono insufficienti così come la copertura securitaria che mette a rischio la Regione. I problemi non sono che all’inizio e il caso Somalia non è che la punta di un iceberg. Il Kenya ha deciso di svuotare il campo di tutti i suoi abitanti, quale che sia la loro nazionalità. Uno di loro, David, congolese della Repubblica democratica del Congo ed ex militante per i Diritti della Donna che vive a Kambioos (sempre all’interno di Dadaab, ndr), racconta di aver saputo che i suoi compatrioti erano stai trasferiti a Kakuma, nel Nordovest del Paese. “Laggiù la mia sicurezza è in pericolo, ci sono persone appartenenti alla mia comunità, persone che anno ucciso cinque membri della mia famiglia e che mi cercano ancora. E’ per questo motivo che sono scappato dal Congo, lo avevo anche fatto presente all’HCR”, dice preoccupato. L’inferno di Dadaab è per lui un rifugio. Presto rischia di non esserlo più.

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