Cronache dai Palazzi
Il 4 dicembre si avvicina e, in sostanza, questo è l’ultimo weekend di campagna elettorale. I sondaggi impazzano, i pronostici sono in bilico e dare per scontata una vittoria del No, come del resto una vittoria del Sì, non è una mossa lungimirante. C’è infatti la solita “maggioranza silenziosa”, lo zoccolo duro degli indecisi, i cosiddetti elettori ‘versatili’, nelle mani dei quali è raccolto in pratica il destino del referendum. Quindi per diagnosticare la sorte della riforma Renzi-Boschi basterebbe sapere se il suddetto zoccolo duro si schiererà a favore del cambiamento, purché un po’ confusionario e quindi ancora da definire, ma pur sempre un cambiamento all’insegna della stabilità (stabilità politica ma anche finanziaria), oppure, se gli elettori ‘versatili’ alla fin fine andando a votare decideranno comunque di far rimanere le cose al loro posto, senza provocare per l’appunto alcun cambiamento.
Il settimanale inglese The Economist si è apertamente schierato a favore del No, prefigurando addirittura il dopo, ossia auspicando un governo tecnico per l’Italia al di là del 4 dicembre. In sostanza per gli inglesi il “gran rifiuto” per la riforma costituzionale del premier Renzi potrebbe, paradossalmente, rappresentare per l’Italia l’occasione giusta per cambiare. In fondo Matteo Renzi “ha sprecato quasi due anni ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna ad occuparsi delle riforme vere meglio è per tutta l’Europa”. Perché, ammonisce l’editoriale del settimanale inglese, “le riforme vere sono quelle strutturali, dalla giustizia all’istruzione”. Nella pratica la riforma Renzi-Boschi “non si occupa del principale problema dell’Italia: la riluttanza a riformare”. Le parole dell’Economist lasciano poco spazio all’interpretazione. Viene per di più scritto che la riforma “introduce la figura dell’uomo forte seppur eletto. Questo in un Paese che ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi”. Il rischio sempre dietro l’angolo è “il populismo montante”. In definitiva la conclusione del settimanale inglese è che “gli italiani non dovrebbero essere ricattati” con la previsione di scenari apocalittici nel caso in cui vinca il No. In fondo “le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che tanti in Europa temono. E l’Italia potrebbe avere un governo tecnico come tante volte ha fatto in passato. Se invece la sconfitta a un referendum dovesse innescare il crollo dell’euro, allora vorrebbe dire che la moneta unica era così fragile che la sua era solo una questione di tempo”, narra l’Economist togliendosi qualche sassolino dalla scarpa dopo il fenomeno Brexit.
Immediata la reazione di Palazzo Chigi: se vince il Sì l’Italia potrebbe diventare il Paese più stabile d’Europa quindi altri (Londra e non solo) potrebbero preferire un governo tecnico sul modello Monti, ciò che Matteo Renzi, puntualizza Palazzo Chigi, non accetterebbe mai. In caso di sconfitta “non farò parte della partita”, ha dichiarato Matteo Renzi ribadendo il suo no a “governicchi”.
Per quanto riguarda eventuali elezioni anticipate, dopo il colloquio con il presidente Mattarella, Renzi ha semplicemente affermato: “Il giorno in cui si va a votare lo decide il presidente della Repubblica sulla base delle decisioni del Parlamento”.
Nel caso vinca il No gli avversari del presidente del Consiglio auspicano inoltre una riforma dell’Italicum, come ha chiaramente dichiarato Silvio Berlusconi, per il quale dopo il 5 dicembre sarà “indispensabile sedersi allo stesso tavolo per fare una nuova riforma e una nuova legge elettorale”. L’ex Cavaliere ha inoltre aggiunto: “Non credo che mai il presidente della Repubblica potrebbe consentire le elezioni con l’Italicum perché avremmo davvero il rischio di ritrovarci Grillo e Cinque Stelle al governo”. Nel frattempo i grillini hanno elaborato ovviamente la loro tesi, tantoché Danilo Toninelli, un deputato pentastellato esperto di legge elettorale, ha dichiarato: “Se vincerà il No al referendum, prenderanno tutto il tempo per fare la legge elettorale il più possibile contro il M5S”. Al centro del discorso di Toninelli c’è ovviamente il ballottaggio, gradito ai grillini e ora non più al Pd, che con la vittoria del Sì sarebbe più difficile da scardinare.
Dopo l’annuncio del premier Renzi di un eventuale ritorno alle urne in caso di vittoria del No, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con l’equilibrio che lo contraddistingue e quindi perfettamente in linea con la sua carica istituzionale, ha comunque puntualizzato che il test referendario non comporta necessariamente un cambio di maggioranza.
L’esito del referendum non cancella infatti la maggioranza parlamentare (l’unico che interruppe la legislatura fu quello del ’93 sul Mattarellum) e la Costituzione prevede a tale proposito precisi passaggi parlamentari, durante i quali il presidente del Consiglio può eventualmente esplicare le ragioni delle proprie dimissioni.
In definitiva “il 5 dicembre non arrivano le cavallette”, ne è convinto anche Matteo Renzi, e non è quindi escluso un governo Renzi-bis che vigilerà a Palazzo Chigi per qualche mese ancora, in attesa del verdetto della Corte sull’Italicum e poi, come vorrebbe il premier (ma non solo), “tutti al voto”. Magari “urne entro l’estate”, come ipotizza Lorenzo Guerini.
Per quanto riguarda ciò che è stato fatto, il decreto fiscale è diventato legge: giovedì 24 novembre il Senato ha approvato il provvedimento che era stato precedentemente accolto dall’Aula di Montecitorio. Tra le nuove disposizioni la rottamazione di Equitalia e delle cartelle esattoriali (non solo di Equitalia) estesa a tutto il 2016. Inoltre un pacchetto di semplificazioni fiscali come il rinnovo automatico della cedolare secca in caso di proroga dell’affitto o, ancora, la cancellazione delle tasse sulle spese di viaggio e trasporto per i piccoli imprenditori fino allo stop a cartelle di documentazione fiscale ad agosto. Nulla di fatto per ora per il tax day per cui le tasse si pagheranno in due volte: Irpef, Irap e Ires entro il 30 giugno e Imu e Tasi entro il 16 giugno. Confermata infine la voluntary bis per chi ha già aderito alla prima tornata di voluntary disclosure. Con l’attuale decreto fiscale vengono in pratica riaperti i termini della procedura di collaborazione volontaria per il rientro dei capitali detenuti all’estero fino al 31 luglio 2017.
Tra le principali innovazioni introdotte invece dalla riforma della Pubblica amministrazione c’è il ruolo unico per i 36 mila dirigenti pubblici, per cui si dispone in sostanza l’unificazione dei ruoli dei dirigenti oggi spalmati su tre aree: Stato, Regioni ed Enti locali. Gli incarichi avranno una durata di quattro anni e potranno essere rinnovati per due anni per una sola volta, per di più nel caso in cui vi sia una motivazione valida e solo se il dirigente è stato destinatario di una valutazione positiva. Tutto ciò dal primo marzo 2017 anche se la riforma andrà avanti per tappe ed esclude dal ruolo unico magistrati, militari, universitari, dirigenti scolastici.
La manovra del governo prevede inoltre la strutturazione di un “super fondo” finanziato con 1,4 miliardi nel 2017 e 1,9 miliardi nel 2018. Le risorse dovrebbero però contribuire non solo al rinnovo del contratto degli statali, bensì anche alla stabilizzazione del bonus degli ottanta euro per le forze dell’ordine e al piano straordinario di assunzioni annunciato da Matteo Renzi. Sindacati e governi sono nel frattempo alla ricerca di un accordo politico da cementare in un verbale come già fatto nel caso delle pensioni, e in cui saranno definiti i minimi termini di ogni aumento in busta paga. Per l’attuazione del suddetto accordo si dovrà comunque aspettare, con molta probabilità, il Testo unico sul pubblico impiego che non sarà varato prima di febbraio e nel quale i cardini dell’accordo verranno tradotti in norme.