Cronaca di una morte annunciata
Come in un famoso romanzo di Garcia Marques, la sconfitta di Renzi era stata largamente annunciata. Lo avevamo scritto più volte, non solo per i sondaggi, ma fiutando l’aria del tempo. Anche tra gli italiani nel mondo, in cui forse il Premier sperava, il “Sì” ha prevalso di stretta misura, non tanto da compensare il voto in Italia. Meglio così, in un certo senso, perlomeno ora la smetteranno di cianciare sul voto all’estero, le sue irregolarità etc.
Nessuno però, neppure i più fantasiosi politologi e sondaggisti, poteva prevedere una vittoria così schiacciante per il “No”, per di più legittimata dall’alta percentuale dei votanti. Una buona cosa di per sé, ma non certo sufficiente ad attenuare una batosta così pesante,
Avevo scritto perché avrei votato “Sì” e resto ancora convinto della mia scelta, che era sofferta ma ragionata. Avevo però indicato i motivi per cui il “Sì” avrebbe perso, qualsiasi buon commentatore non fa fatica a individuarli. Quello che mi convince di meno è la “personalizzazione del voto” operata da Matteo Renzi; non perché essa non abbia influito, ma perché, a mio avviso, era inevitabile. Dal momento in cui il Premier aveva imboccato la strada di una riforma controversa, doveva prevedere che il Referendum si sarebbe trasformato in un plebiscito contro di lui. Bastava fare un po’ di conti: tra grillini, destra e minoranza del PD, non era difficile calcolare un 60% di contrari. Il 40% ottenuti dal “Sì” corrisponde a quello conquistato da Renzi alle Europee, il resto è un coacervo di scontenti. Scontenti del Governo? Credo soprattutto della lunga crisi economica, dell’insicurezza, degli eccessi dell’immigrazione e non pochi anche delle regole europee viste come un freno alla crescita economica.
Nel merito della riforma, tuttavia, c’è qualcosa che obiettivamente giustifica in parte il rigetto. Anche questo lo abbiamo scritto più volte: la composizione e i poteri del Senato sono pasticciati e confusi, la separazione di compiti tra Stato e Regioni non è netta e chiara come dovrebbe essere, l’abolizione del CNEL è una buona cosa, ma di per sé non giustifica il resto, per deciderla bastava un semplice emendamento costituzionale e nessuno avrebbe strillato per difendere un ente costoso e inutile. Altri aspetti della riforma erano condivisibili, ma modesti rispetto al difetto fondamentale del Senato. Poi c’è un problema di stile personale. Renzi può risultare antipatico o simpatico ma nessuno può negare il suo fare sbrigativo e spesso abrasivo. Il suo errore principale è stato di giustificare la rottura del Patto del Nazareno e di non tenere uniti il PD e la sinistra. Forse avrebbe perso comunque, ma in modo meno clamoroso.
In un discorso di tono certamente elevato, Renzi ha ammesso le sue responsabilità e ne ha tratto le conseguenze annunciando le sue dimissioni. Non avrebbe potuto fare altro, d’accordo, però lo ha fatto con una certa dignità, rivendicando i risultati di un ciclo di governo che non è stato, nel suo complesso, negativo. È probabilmente il primo uomo politico nella nostra storia (a parte Bersani nel 2013) a non restare aggrappato alla sua poltrona.
Ora la palla è nelle mani del Capo dello Stato, che ha saggezza ed esperienza sufficienti per tenere il timone in un momento di grave difficoltà, trovando la soluzione più idonea a garantire un minimo di stabilità e completare alcuni processi istituzionali importanti. Naturalmente, è soprattutto il PD, detentore della maggioranza parlamentare, a dover mostrare senso di responsabilità. Tutti quelli che al suo interno hanno fatto a Renzi una guerra spietata e spesso diffamatoria, si mettano la mano sulla coscienza e contribuiscano a trovare una soluzione che rassicuri il Paese e i nostri partner europei, al di là di vendette e coltellate che porterebbero tutti al suicidio.