La piccola Guerra fredda

Nelle ultime settimane della sua amministrazione, Barack Obama si sta saldando alcuni conti in sospeso. Il primo riguarda, non tanto Israele, quanto il Primo Ministro Netanyahu. Obama non gli ha perdonato di aver attaccato l’accordo sul nucleare coll’Iran in un discorso al Congresso degli Stati Uniti. Colla loro astensione sulla risoluzione che condanna i nuovi insediamenti israeliani nella West Bank, Obama ha permesso che la risoluzione passasse (all’unanimità). È una inequivocabile affermazione politica, abbastanza inedita per gli Stati Uniti, tradizionalmente usi a schierarsi all’ultimo momento sempre coll’alleato israeliano. Netanyahu lo ha perfettamente capito e ha reagito con rabbia, appellandosi a Trump. Questi non potrà disfare quello che è stato fatto o cancellare la risoluzione, ma la sua posizione costituirà per Tel Aviv un supporto prezioso per andare avanti nella follia degli insediamenti ignorando il voto del Consiglio di Sicurezza.

La decisione americana è stata ampiamente giustificata in una conferenza stampa dal Segretario di Stato Kerry, un vero e proprio attacco frontale agli insediamenti  e alla politica del  governo israeliano definito “di destra estrema”. Parole di peso, e il fatto che venissero da un Segretario di Stato in uscita non ne diminuisce troppo il valore (forse, se Kerry avesse avuto davanti a sé ancora un lungo periodo di mandato, probabilmente si sarebbe astenuto da una posizione così netta).

Il secondo conto Obama lo ha saldato con Putin. Chissà quante frustrazioni aveva accumulato il Presidente americano, dalla Crimea alla Siria, in cui lo zar russo ha preso e sempre poi mantenuto l’iniziativa, facendo passare Washington in secondo piano e facendo accusare Obama di debolezza. La goccia che ha fatto traboccare il vaso (e fornito un’ottima ragione) è stata l’interferenza russa nella campagna elettorale USA a scapito della candidata democratica, Vedremo le prove dettagliate, di cui è stata annunciata la pubblicazione. Intanto, l’espulsione di 35 diplomatici russi e la chiusura di due uffici consolari , costituisce un gesto clamoroso, che ricorda i punti più glaciali della guerra fredda. E difatti, di “nuova guerra fredda” parla molta parte della stampa. Un po’ tanto (un po’ troppo, direi) per un’Amministrazione che ha solo venti giorni di vita davanti a sé.

Penso però che la cosa non lascerà tracce durevoli nei rapporti USA-Russia se, come largamente annunziato, Trump e Putin mirano a un accordo. Tanto più si rafforza perciò l’impressione che gli ultimi gesti di politica estera di Obama rispondano più a un (comprensibile) desiderio  colpire i peggiori avversari personali, che a una strategia di lungo termine: se non, forse, l’intento di rendere più difficile a Trump il riavvicinamento a Mosca di fronte a quell’ampia parte del Partito Repubblicano , dell’establishment militare e dei servizi di intelligence.

Se le prove fornite sull’interferenza russa nelle elezioni USA fossero convincenti , per Trump – a parte l’ovvia risorsa di  definire tutto un falso – risulterebbe difficile fare come niente fosse.  Obama sicuramente contava su rappresaglie russe che avrebbero irrigidito il clima e reso tutto piú difficile. Putin lo ha perfettamente compreso e ha reagito con una moderazione (diciamolo pure, con un’intelligenza) rimarchevoli, Il tono compiacente e lievemente ironico usato, gli auguri a Obama e agli Stati Uniti, le non-ritorsioni, mostrano che il Presidente russo ha deciso di non entrare in una spirale da “piccola guerra fredda” che renderebbe più complicato il dialogo con Trump, su cui evidentemente ha puntato le sue carte.

Le difficoltà del riavvicinamento russo-americano (per molti versi augurabile)  vanno peraltro al di là dell’attuale episodio : come si può essere amici di Mosca e nemici dei suoi  alleati, come l’Iran?  Come si concilierà una politica apertamente pro-israeliana con le posizioni russe pro-arabe? Potrà Trump dare una reale sterzata alla politica della NATO nell’Est europeo e abbandonare a sé stessi, per esempio, i Paesi baltici? E lo sbandierato intento di espandere le capacità nucleari degli Stati Uniti? Basteranno a coprire queste differenze i grandi affari della Exxon Mobil in Russia? Vedremo. Tutto è possibile se Trump è disposto a mollare una parte delle posizioni americane in Europa, Medio Oriente e altrove e se il Congresso (repubblicani inclusi), glielo lascerà fare. Intanto, apriamo il più possibile l’ombrello europeo.

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