La mazurka del barone… (Film, 1975)
La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone è il terzo lungometraggio diretto da Pupi Avati, la sua prima commedia, grottesca e provinciale, molto felliniana e dalle salde radici romagnole, ambientata a Bagnacavallo, ma di fatto girata tra Bologna e Ferrara (Cento).
In breve la trama. Anteo Pellecani (Tognazzi), detto la gambina maledetta, torna a Bagnacavallo per prendere possesso dell’eredità che comprende una villa e l’orto con annesso un fico fiorone miracoloso. Nel 726, infatti, Girolama Pellecani fu stuprata da un’orda di barbari longobardi proprio sotto quella pianta, salvando la vita alle compagne e quindi ritirandosi a vivere tra i rami del fico, dove dette alla luce un figlio. Da quel tempo la pianta è giudicata miracolosa, in paese dicono che guarisca malati e risolva problemi, inoltre per la Chiesa rappresenta un buon affare economico. Il solo a odiarla con tutta l’anima è il barone Anteo che, giovane e valente podista, salì sul fico, cadde dal ramo, si ruppe una gamba, finì per zoppicare e dovette abbandonare lo sport che amava, diventando cinico e misogino. Arrivato a Bagnacavallo il suo unico scopo è quello di far abbattere il fico, ma nessuno lo asseconda, persino un rozzo contadino (Dalla) si rifiuta di procedere a segarlo perché da piccolo è stato miracolato. Anteo spaventa una carovana di pellegrini spagnoli a raffiche di mitraglia, getta bombe sul fico, disprezza la corte di un’esuberante cugina, ma cambia repentinamente carattere quando crede di vedere apparire la santa tra i rami del fico. In realtà è soltanto una prostituta bionda (Boccardo), che guidata da un protettore privo di scrupoli (Villaggio) conduce il gioco alle estreme conseguenze fino a ordire una truffa ai danni del barone. Anteo cade in miseria, si riduce a vivere in una baracca accanto al fico e attende invano una nuova apparizione. La santa torna a sorpresa, perché la prostituta pentita prima confessa il reato al Commissario, quindi finisce per dare alla luce il figlio che porta in grembo proprio sotto il fico fiorone. Finale tragico, da vera commedia all’italiana, con la prostituta che muore di parto e il barone che vaga nella notte fredda e innevata, tenendo stretto in braccio il neonato, mentre nuovi turisti della fede tornano ad affollare il luogo e confermano le parole di un cinico prete: I miracoli servono!
Pupi Avati dimostra fin dal primo film non di genere la sua grande predisposizione a narrare piccole storie di provincia, debitore di Amarcord (1973) di Federico Fellini per la galleria di tipi umani assurdi e per le donne sovrabbondanti, prima tra tutte la cugina scorreggiona del barone. Personaggi minori resi con magistrale bravura da Gianni Cavina (il servo sciocco e sessuomane), Giulio Pizzirani (il prete intrallazzone), Gianfranco Barra (il brigadiere ignorante), Lucio Dalla (il contadino) e Patrizia De Clara (la cugina svampita). Ugo Tognazzi è superlativo nel cambiamento di personalità, da cattivo senza redenzione a uomo disperato e affranto, perfetto nella doppia caratterizzazione. Paolo Villaggio porta al cinema i suoi personaggi televisivi del momento, i cattivi stile Franz tedesco di Germania, qui è un magnaccia bigamo, del tutto amorale, che vive alle spalle di due esuberanti prostitute (Boccardo e Camille).
Il film è una commedia grottesca, introdotta da un antefatto storico ironico – quasi un film nel film – dove si raccontano le gesta della santa e si compie una sorta di parodia de L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli. La commedia provinciale, poi, prende strade molto felliniane, racconta di cantanti stonati che si esibiscono a teatro, balere dove si balla la mazurka, seduzioni maldestre, superstizioni e voglie represse, tipi da Bar Sport, contadini incolti e carabinieri sciocchi.
Fotografia dai toni opachi del buon Kuveiller, montaggio senza tempi morti del bravo Mastroianni, interessante colonna sonora di Tommasi con immancabili accenni jazz (la passione di Avati) e pezzi da solista interpretati da Gualdi. Un film ancora acerbo, ma che presenta in nuce tutte le caratteristiche di un Avati futuro narratore di piccole storie della provincia italiana, capace di mantenere il registro narrativo in bilico tra commedia e sentimento, tra ristata grottesca e dramma incipiente. Da riscoprire.
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Regia: Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati, Antonio Avati. Sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Gianni Cavina. Fotografia: Luigi Kuveiller (Technicolor). Montaggio: Ruggero Mastroianni. Scenografia e Costumi: Fiorenzo Senese. Musiche: Amedeo Tommasi. Edizioni Musicali: Eurofilm Music (Roma). Organizzazione Generale: Aldo V. Passalacqua. Aiuto Regista: Antonio Avati. Assistente alla Regia: Riccardo Tognazzi. Operatore alla Macchina: Antonio Annunziata. Fonico: Mario Dallimonti. Clarinetto e Sax Solista: Hengel Gualdi. Canzoni: Sugar Bush, Fascination. Teatri di Posa: De Paolis (Roma). Mixage: Alberto Tinebra. Registrazione Sonora: Coop Lavoro Fono Roma srl, CVD. Direttore del Doppiaggio: Carlo Baccarini. Girato: Cento, Bologna. Produttore: Giovanni Bertolucci. Casa di Produzione: Euro International Films. Genere: Commedia Grottesca. Durata: 102’. Interpreti: Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Delia Boccardo, Gianni Cavina, Giulio Pizzirani, Gianfranco Barra, Lucienne Camille, Andrea Matteuzzi, Bob Tonelli, Pina Borione, Ines Ciaschetti, Ferdinando Orlandi, Adolfo Caruso, Lucio Dalla, Patrizia De Clara, Cesare Bastelli, Fanny Bertelli, Luciano Bianchi, Gina Bona, Pietro Bona, Giovanni Brusadori, Giorgio Cerri, Gilberto Fiorini, Luigi A. Guerra, Arrigo Lucchini, Carla Mancini, Alfredo Marchioni, Giulio Rizzi, Elsa Schiassi, Luisella Torsello, Raffaele Triggia, Tatiana Uniti, Giacomo Vecchi.
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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]