Il Mein Kampf di Trump

Chi avesse letto il “Mein Kampf”, scritto da Hitler prima ancora di andare al potere, avrebbe potuto facilmente prevedere quello che poi il dittatore nazista ha fatto dal 1933 al 1945. Donald Trump ha scritto anche lui un libro programmatico, “Great again”, in cui espone il programma che ha poi ampiamente pubblicizzato durante la campagna elettorale e sta ora, pezzo per pezzo, applicando nei suoi primi giorni alla Casa Bianca. Dico questo perché, per debolezza o infondato ottimismo, si tende sempre a sottovalutare quello che personaggi del genere annunciano chiaramente, pensando che no, che è demagogia elettorale, poi la realtà si incaricherà di aggiustare le cose.

In pochi giorni, Trump ha preso tre decisioni significative: la costruzione del muro con il Messico, il ritiro dal Trattato Commerciale dell’Asia e del Pacifico (che peraltro non era stato ancora ratificato dal Congresso) e il divieto di entrata negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi musulmani. La prima decisione rende i rapporti con il Messico, un grande vicino del Sud, tesi come mai lo sono stati. Levare un muro e pretendere per di più che il Messico ne paghi il costo, non poteva che offendere quel paese e sollevarvi ondate di orgoglio popolare che, come primo risultato, colpiranno  prodotti e imprese americane, massicciamente presenti in Messico.

Il divieto d’immigrazione è un atto spropositato e discriminatorio che rischia di essere inutilmente conflittivo e in sostanza inefficace. Il Presidente ha tutto il diritto, e il dovere, di proteggere il proprio paese dal terrorismo, e una misura utile è selezionare gli immigrati provenienti da paesi esposti. Selezionarli in modo rigoroso, rendendo più rigide le norme per la concessione dei visti. Ma decretare un bando  generale è assurdo e temo che non servirà a nulla. Perché? Per varie ragioni: la prima è che il decreto non copre, almeno finora, paesi da cui, storicamente, i terroristi venivano in passato, come Tunisia, Marocco, Afghanistan, Arabia Saudita, Libano, Egitto, Pakistan. Si accusa Trump di averli esclusi per l’importanza degli interessi economici che egli personalmente ha in quei paesi. Può darsi, se così fosse sarebbe anche peggio. La seconda ragione è che, negli ultimi tempi almeno, i terroristi che operavano negli Stati Uniti erano cittadini americani o residenti permanenti.  La terza è che nessuna organizzazione terrorista ha difficoltà a fornire i suoi agenti di passaporti di paesi non nella lista nera. La quarta è che i terroristi potranno continuare senza problemi a colpire interessi americani fuori degli Stati Uniti.

In questi termini, il decreto può apparire tanto inutile quanto sparare a cannonate per eliminare una mosca. Ma in realtà è anche dannoso. Lo è per l’ondata di indignazione sollevata, non solo nel vasto mondo musulmano, ma un po’ dappertutto, per la caduta verticale di immagine degli Stati Uniti e la probabilità che porti a una nuova ondata di attacchi contro l’America. Dannoso perché, quando si colpisce indiscriminatamente la massa di immigrati che vivono e lavorano negli Stati Uniti, si dà un colpo gravissimo alla stessa economia americana, soprattutto nei settori della scienza e tecnologia avanzate. Nella mitica Silicon Valley, ad esempio, lavorano migliaia di immigrati, senza la cui opera i produttori di tecnologia dichiarano che il lavoro sarebbe impossibile. E dannoso infine perché scava un abisso profondo cogli Alleati europei, salvo forse l’Inghilterra di Theresa May, contenta apparentemente di essere il cagnolino scodinzolante di Washington.

È confortante vedere che meno della metà dell’opinione pubblica Usa approva queste misure, che l’opposizione democratica le attacca con virulenza e una buona parte del Partito Repubblicano tace imbarazzata. Ma, soprattutto, che 17 Stati della Federazione abbiano fatto ricorso e che già molti giudici in tutti gli Stati Uniti abbiano frenato le misure di espulsione e le Associazioni di diritti civili annunciano battaglie legali fino alla Corte Suprema.

Non credo che tutto questo fermerà Trump, probabilmente gli suggerirà qualche ritirata tattica, magari nei confronti dei titolari della “green card”. È un populista e un demagogo e cercherà di andare avanti applicando il suo personale “Mein Kampf”. Fino a quando il sistema americano, che è vasto e complesso, glielo permetterà.

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