L’affare Flynn
Il mondo politico americano, soprattutto quella parte più direttamente interessata alla politica estera, è stato scosso questa settimana dal cosiddetto “Affare Flynn”.
Ricordiamo i fatti: il generale Michael Flynn, ardente sostenitore di Trump nella campagna elettorale, era stato da questi nominato Consigliere Nazionale per la Sicurezza, una posizione di estrema importanza e delicatezza (e basti pensare che nella prima presidenza Nixon ad occuparla fu Henri Kissinger). Il Consigliere Nazionale per la Sicurezza coordina e centralizza tutta la materia relativa alla politica estera e alla difesa degli Stati Uniti e costituisce il canale privilegiato tra il Presidente e il Dipartimento di Stato, la Difesa, la CIA e altri organismi di intelligence. È chiaro che chi occupa il posto deve essere una persona sicura a tutta prova. Flynn era noto – e criticato – per la sua posizione filorussa.
Giorni fa, la CNN aveva rivelato suoi contatti telefonici coll’Ambasciatore russo a Washington, prima dell’assunzione da parte di Trump della Presidenza, vertenti sul tema, delicatissimo, delle sanzioni americane alla Russia. Interpellato dal Vicepresidente Pence, Flynn aveva però dato di quella conversazione telefonica una versione completamente neutra, come di una chiacchierata irrilevante, e su questa base Pence aveva dato assicurazioni in un’intervista al Washington Post. La stampa ha però dato notizia che lo stesso FBI aveva segnalato il caso alla Casa Bianca facendo presente che, con le false notizie fornite ai suoi superiori, Flynn si era esposto a un possibile ricatto russo ed era perciò vulnerabile. La cosa non poteva finire così e Flynn è stato costretto, lunedì scorso, a dare le dimissioni.
Trump ha reagito a questo brutto “affaire” al modo solito: non potendo negare l’inverosimile scorrettezza compiuta dal suo subordinato, se l’è presa con la stampa che ha dato la notizia, travisando, a suo dire, i fatti e ha detto di aver chiesto al Dipartimento della Giustizia di aprire un’inchiesta, non sul comportamento di Flynn, ma… sulla fuga di notizie sul suo caso. Paradossale, non è vero?
Al di là dell’episodio increscioso, ma tutto sommato non letale per Trump, è venuto però fuori con grande evidenza un problema chiave della sua politica estera, i rapporti con la Russia di Putin, terreno quanto mai scivoloso, se si considera che nei circoli che contano a Washington, sia nel Senato che nel Partito Repubblicano in generale, nella CIA e tra i militari, la Russia continua a essere vista con forte diffidenza e ostilità e come un potenziale o attuale avversario. Che il caso Flynn sia divenuto di pubblico dominio, dimostra che c’è in questi circoli chi è ben deciso a sabotare le aperture a Putin e a mettere molti bastoni tra le ruote al programma di Trump in materia.
Il neo-Presidente, al di là di quello che dice spavaldamente in pubblico, ha del resto dato qualche aggiustatina alla sua linea, annunciando un radicale rafforzamento delle forza militare degli Stati Uniti e facendo dire al suo portavoce che la Crimea deve essere restituita all’Ucraina: una dichiarazione puramente retorica e di nessun contenuto pratico, ma certo non un gesto amichevole verso Mosca, i cui portavoce hanno del resto reagito dichiarando che i rapporti con gli Stati Uniti restano “su uno strato di ghiaccio molto sottile”. Svaniti dunque i discreti entusiasmi dell’inizio.
Ora si tratterà di vedere quali saranno le prossime mosse, cosa si diranno i due ministri degli Esteri nel loro programmato incontro, cosa Trump dirà agli alleati atlantici nel vertice NATO e così via. Ma, al di fuori delle ovvie convergenze anti terrorismo e anti ISIS, è improbabile che i rapporti tra le due superpotenze raggiungano facilmente uno stato di “bello fisso”.
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