Internet fa bene all’economia?

Non ci va di ammetterlo, perché chattare e giocare on line ci piace troppo: ma l’Internet di oggi, distorta a scopo commerciale, sta divorando la nostra principale risorsa, la mente. E sta veicolando nell’economia improduttività e crisi. Lo sta facendo agendo negativamente sulle menti dei singoli. Quella di ciascuno di noi per prima, troppo debole per dire di no. Improduttività da delega di memoria ai ‘cloud’ della Rete, che indebolisce la mente e, in ultima analisi, il rendimento nello studio e sul lavoro. Improduttività da perdita di tempo, durante il lavoro, sui social, e per le troppe mail, anche di lavoro. Improduttività da disturbi della concentrazione.

Come sempre, la responsabilità non è dello strumento tecnologico, ma dell’uso che se ne fa. Negli ultimi anni, Internet è stato ‘okkupato’ dalle attività commerciali. Non riusciamo a concentrarci, a riflettere, perché siamo bombardati da quello che Gillo Dorfles ha descritto come ‘rumore mediatico’: l’effetto prodotto dai bombardamenti a tappeto, nei quali la singola cannonata non si distingue più. Il sistema informatico e le comunicazioni delle aziende non funzionano perfettamente e per anni – come invece possono fare una catena di montaggio o un impianto elettrico – perché le interferenze commerciali ed il business degli aggiornamenti non lo consentono. Come le menti, il Lavoro, e la Ricerca grazie a cui e per cui Internet è nata decenni fa, non sono più liberi come un tempo.

Come descritto da Federico Rampini nel suo ‘Rete padrona’, pubblicato nel 2014, la Rete ha subito la stessa sorte delle ‘common land’: le ‘terre comuni’ inglesi che dal Medioevo al XVI secolo consentirono a tutti la vita nelle campagne, ma poi vennero occupate dalla grande proprietà. E la sorte dell’acqua oggi, altro bene comune che sta subendo privatizzazione e commercializzazione in tutto il mondo. Questa volta però l’occupazione non è quella delle risorse agricole, o dell’acqua: è quella del pensiero, che è capacità di produrre, oltreché la massima espressione dell’essere Uomini.

Il problema non è solo quello, ormai noto a tutti, della perdita della privacy: ovvero il fatto che con i nostri click e le parole chiave delle mail filtrati dagli algoritmi alimentiamo i big data sulle preferenze e quindi il business commerciale. Né quello della perdita di libertà personale per colpa del Grande Fratello, descritto da Orwell in ‘1984’. C’è di più. Non ci va di ammetterlo mentre scorriamo il pollice sul touch screen, ma il ‘tempo della mente’ di ciascuno è occupato dalle info, le info, e poi altre info, e le Risposte alle Domande sulla vita le cerchiamo in Rete, anziché dentro di noi. Attraverso le soddisfazioni prodotte dalle risposte trovate in Rete, o anche solo dal passatempo, siamo psicologicamente ‘okkupati’. Clickiamo prima di farci la barba. Leggiamo le news sull’allevamento di conigli nel deserto australiano prima di quelle sull’aumento delle tasse qui da noi (che magari non troviamo neanche). Chattiamo invece di lavorare. E chattiamo invece di rallentare all’incrocio.

C’è poi la ciliegina sulla torta: la telematizzazione di tante attività, le adempienze telematiche, l’occupazione del nostro tempo a fare ricerche on line, a riempire moduli, e poi a rispondere a messaggi e magari alla mail del capo di domenica mattina tolgono tempo al lavoro vero e proprio; a fronte di un po’ di tempo risparmiato in ricerche o pratiche, ce n’è tanto perso ‘a servizio’ della Rete. E’ il fenomeno della ‘buromatica’. E come se non bastasse ci impediscono di riflettere sulla follia di tutto questo. Non siamo neanche in grado di protestare, perché non abbiamo tempo di rendercene conto. Non siamo più qui ed ora, infatti siamo lì, nel ‘cloud’, fra le nuvole: che non sono qui con noi, ma sono da qualche altra parte, nelle mani di qualcun altro.

Non è solo grazie all’uso della Rete non più solo scientifico, professionale o di ricerca, che siamo distratti dal lavoro, dalla riflessione sulla vita o dalla guida al volante. Il cellulare, altra invenzione non richiesta e prima della quale il lavoro funzionava e meglio, ha legittimato l’idea che si possa invadere la vita altrui in qualunque momento. Anche sul lavoro, quindi. Non certo a beneficio della produttività. E ogni quisquilia viene puntualmente veicolata via telefonata o messaggio al malcapitato di turno, come se non valesse il ‘non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te’.

Internet è stato utilizzato anche per trasformare molte professioni, specialmente quelle intellettuali, oggi messe in ginocchio o distrutte da Internet: a cominciare dall’Informazione, teoricamente ‘democratizzata’ ma in realtà dequalificata dalla perdita di professionisti licenziati. Professioni i cui lavoratori, fornitori ormai a titolo gratuito di contenuti a beneficio della Rete, sono descritti, ancora da Rampini, come i nuovi ‘servi della gleba’. Aveva ragione Jeremy Rifkin, a parlare della Fine del Lavoro? Avevano ragione i Luddisti, a protestare contro la meccanizzazione eccessiva del lavoro? Sicuro che un’azienda debba essere per forza un meccanismo ottuso, meramente orientato al realizzo immediato – magari tramite facili licenziamenti – e non, in modo lungimirante, ad un servizio di qualità ai clienti, e quindi a preservare know-how e capacità di acquisto da parte dei suoi lavoratori? Tipo Fordismo? Tipo industria automobilistica tedesca di oggi, così diversa da quella che fu nostra? Cosa conta di più: il business fatto solo un giorno in Borsa coi soldi risparmiati sugli stipendi, o i posti di lavoro – e le intelligenze, le competenze, le motivazioni, i know how personali – da tenere in produzione a beneficio di una intera società per decenni? E quali vantaggi reali si sono ottenuti, nella produttività? Quella dei ‘prodotti’ veri, non di quelli così impropriamente definiti anche se finanziari, per capirci.

Forse è per l’uso distorto delle telecomunicazioni, e per la saturazione delle energie sociali a scopo commerciale, che arriverà il ‘tramonto dell’Occidente’ descritto nell’opera omonima da Oswald Spengler. Il tempo in cui viviamo somiglia pericolosamente  alla fase finale della nostra civiltà, che nel libro è descritta come dominata dalla Comunicazione e dal Denaro. Ma perché finire così? L’economia non si riduce a finanza e marketing: è qualcosa di più ampio e importante. E se si riesce a sottrarla – psicologicamente e poi politicamente – alla moderna soggezione ai ‘mercati’, l’economia, quella vera, può farci uscire dalla crisi e tornare a produrre non solo profitto per pochi, ma benessere per tutti.

©Futuro Europa® Le immagini utilizzate sono tratte da Internet e valutate di pubblico dominio: per segnalarne l’eventuale uso improprio scrivere alla Redazione

[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]

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