Sumo a Venezia

“Sumo shu no otogai nagaku oinikeri – Il mento del lottatore di sumo s’è fatto lungo: il lottatore è diventato vecchio” (da Il grande libro degli haiku a cura di Irene Starace): così ci descrive il gigante dorato questo haiku, un lottatore che pratica un arte molto antica, ancora sconosciuta e misteriosa che appartiene alla cultura giapponese.

Una pratica lontana dalla mondanità degli sport internazionali, un arte che basa tutto sulla accettazione di sé, la concentrazione e la meditazione; in occasione della 57/a Biennale Arte, grazie al programma Valore Cultura di Generali Italia e alla collaborazione di Arthemisia, quest’arte apre una finestra agli occidentali, affinché, anche noi che ignoriamo la complessità e la storia di questa tradizione, si possa accedere se non a tutto almeno a parte di questi misteri che la circondano.

Fino al 16 Luglio, infatti, presso Palazzo Morosini a Venezia sarà possibile visitare la mostra KOKODÉ KAMIGAMI ここで神々, nome molto significativo che in italiano si traduce “Qui si incarnano gli dei”; si tratta di uno studio a quattro mani fatto dal fotografo francese Philippe Marinig e dall’incisore di ukiyo-e (stampa artistica giapponese su carta), l’artista giapponese Daimon Kinoshita, una commistione tra le due arti che ci accompagna nell’antico mondo del Sumo, che si protrae da 400 anni (la sua comparsa risale al VI secolo, mentre i primi gruppi professionistici iniziano a formarsi verso il XVII secolo).

L’esposizione, curata da Xavier Martel docente di storia dell’arte del XIX secolo presso l’Università Paris I, conta 33 opere che affrontano in modo delicato ed elegante il mondo della forza, dell’intelligenza e dell’accettazione di sé dei lottatori di sumo (i sumotori) che una volta professionisti diventano rikishi.

Grazie alle fotografie di Marinig entreremo nel mondo di questa antica lotta giapponese scoprendo i nomi particolari che la caratterizzano, ad esempio potremo vedere le heya ovvero le palestre in cui i sumotori si allenano, che ricordano un po’ le scuderie e per questo chiamate anche con questo appellativo; vedremo il dohyo la zona dove avviene il combattimento, qui entrano in scena i costumi tipici della lotta, come il mawashi il tipico perizoma e la caratteristica acconciatura a chignon detta oi-cho mage.

Dalle immagini in mostra, potremo apprendere le differenze tra i lottatori identificando tra essi lo yokozuna il campione indiscusso distinguibile per la tipica tsuna, una corda visibilmente pesante, che porta annodata intorno alla vita al suo ingresso sul dohyo. Non è un caso che a questo campione sia dedicata un’intera sezione, qui gli autori hanno voluto narrare la storia di Kisenosato, il 72° yokozuna della storia del Giappone. Questo importante giocatore ha raggiunto l’apice della carriera con la vittoria del Grand Sumo di Spring 2017, con un distacco di 19 anni dal suo predecessore.

Un cerimoniale arcaico dove le arene sono sempre circondate dalle divinità protettrici e dai loro colori, verde per Seiryū il drago azzurro dell’est, rosso per Suzaku la fenice del sud, bianco per Byakko la tigre bianca dell’ovest e nero per Genbu la tartaruga nera del nord, che troviamo disposte ai quattro punti cardinali, con lo scopo di sorreggere lo spazio che circonda il dohyo e vegliare sui lottatori.

Le immagini esposte, inoltre, danno un senso di appartenenza al cerimoniale, sembra di poter partecipare anche noi e sentire i colpi battuti per scacciare gli spiriti maligni, vedere il sale lanciato per lavare l’anima, sentire l’acqua per ottenere forza e avvertire l’odore dell’incenso che arde scandendo il tempo.

Dalle opere esposte inoltre si comprenderà il significato del nome dato alla mostra, questi sumotori cinti dai loro costumi e immersi nelle loro cerimonie ricordano le divinità protettrici ed all’interno delle arene sembra di assistere all’incarnazione degli dei protettori della vita, da qui Kokodé Kamigami.

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