Spagna, economia in crescita
Mentre il governo italiano si affanna a cercare di raggranellare qualche decimale di crescita del pil e la Francia è alle prese con una fondamentale tornata elettorale, la Spagna gode di un risultato della prima trimestrale 2017 di grande valore. Lo 0,8% degli iberici stride a confronto del misero 0,3% dei francesi, e porta la base annua prevista per il 2017 ad un sonoro 3% di crescita del pil. A questo bisogna aggiungere che è il terzo anno consecutivo positivo e che ora il paese guidato da Rajoy è solo a 4 decimali di punto dalla soglia pre-crisi. A margine, a beneficio dei fautori della Brexit, possiamo aggiungere il risultato peggiore raggiunto dalla Gran Bretagna nell’ultimo anno, le incognite sull’uscita dall’Europa iniziano a farsi strada ed il Regno Unito si ferma allo 0,3%.
Gli aspetti della rinascita spagnola sono peraltro variegati, oltre il 3% conseguito per il terzo anno consecutivo, si è assistito ad un forte cambiamento nella composizione del pil spagnolo, il Financial Times fa notare come il settore delle costruzioni, alla base della bolla immobiliare e quindi della crisi che ha colpito la Spagna, non sia più al primo posto. E’ passata da oltre il 10% a meno della metà , nel contempo le esportazioni di beni e servizi sono esplose passando dal 25 al 33% del pil con una variegata composizione. Lo stesso autorevole giornale economico punta il dito sul diverso approccio rispetto al problema bancario, mentre gli iberici hanno lasciato fallire le banche non sostenibili, l’Italia si è lanciata in costosissime operazioni di salvataggio, senza nemmeno riuscire a ripristinare condizioni economiche sane delle stesse.
Non bisogna nascondersi il rovescio della medaglia, se le esportazioni stanno vivendo una stagione di grande successo, si deve ad un abbattimento del costo del lavoro che trova molte analogie con le riforme del mercato del lavoro fatte dal governo Renzi. Curiosamente simili i percorsi, ma fatti da un governo di destra in Spagna e da uno di sinistra (?) in Italia, purtroppo con risultati estremamente diversi, evidentemente quanto esposto in precedenti articoli mostrando che il solo taglio del costo del lavoro non serve, non è nei programmi dei governi italiani di questi anni.
Il costo unitario del lavoro in Spagna è calato del 14% dal 2010 ad oggi, il risultato è dovuto al jobs act spagnolo, che nel paese guidato da Mariano Rajoy ha preso il nome di Ley Estrella (Legge Stella). Il tutto in un paese guidato con governi di minoranza o di coalizione, anche qui il paragone con la tanto invocata governabilità di Matteo Renzi mostra che per fare atti positivi non è necessario un referendum costituzionale. La Ley Estrella è stata comunque fortemente lesiva dei diritti dei lavoratori, introducendo la possibilità di licenziamento per mutate condizioni economiche; un taglio alle indennità dovute al lavoratore licenziato senza giusta causa; contratti fatti in deroga alla normativa nazionale.
Il risultato della riforma del lavoro, oltre i risultati economici positivi, ha profondamente mutato la struttura sociale del paese. Su 20 milioni di contratti di lavoro nuovi firmati, ben 9 su 10 sono stati a tempo determinato, portando il totale dei precari al 40% dei 18,5 milioni di iscritti alla Seguridad Social. Se è vero che dal 2013 ad oggi il tasso di disoccupazione è sceso del 7,5%, record europeo, è altrettanto assodato che sono ancora 3,7 milioni i disoccupati ed altri 500.000 cittadini spagnoli hanno perfino smesso di cercare una occupazione. Come sempre in questi casi si è allargata la forbice tra ricchi e poveri e le categorie più deboli risultano anche quelle più colpite con un 43% di senza lavoro tra i giovani e le donne.
Le perplessità sull’attuale composizione del mercato del lavoro hanno trovato riscontro nella Commissione Europea che ha invitato a mettere in atto dei correttivi dichiarando che “l’evidente disparità tra lavori protetti e precari ha un impatto molto negativo sulle condizioni dei lavoratori e sulla coesione sociale”; e nelle parole della responsabile per la Spagna del FMI, Andrea Schaechter secondo cui “La gran parte del lavoro che si va creando è a tempo determinato, la dualità del mercato del lavoro è tanto marcata da impedire gli investimenti in capitale umano con inevitabili conseguenze sulla produttività dei lavoratori”.
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