Maghreb, i giovani contro i Governi
Dal Sud della Tunisia al Rif marocchino passando per l’Algeria, la gioventù maghrebina urla la sua frustrazione in faccia ai rispettivi Governi.
Nel Maghreb gli anni susseguono, si somigliano e si uniscono. Le rivendicazioni dell’altro ieri, di ieri e di oggi saranno anche quelle di domani. La storia tartaglia all’interno del ventre molle del Maghreb. In Marocco, Al Hoceima è una Provincia adagiata in riva al mare, dove la pesca e il turismo sono la primaria fonte di sussistenza. La morte sospetta di un pescivendolo avvenuta nell’Ottobre del 2016 – stritolato dal meccanismo di un camion dei rifiuti pochi istanti dopo che la polizia aveva sequestrato la sua merce – aveva scatenato vivaci manifestazioni e scontri con la polizia. Il fatto era stato frettolosamente paragonato all’immolazione del giovane fruttivendolo avvenuta a Sidi Bouzid, in Tunisia, il 17 Dicembre del 2010. Anche nel caso tunisino la polizia aveva sequestrato la piccola attività di Mohamed Bouazizi, il fruttivendolo. Un mese dopo, il regime cadeva e la Tunisia entrava in Democrazia. Ma Tunisi non è Rabat, e viceversa.
Una quindicina di giorni fa, il Sud della Tunisia ha ripreso a bruciare. La morte “accidentale” di un manifestante, investito da una macchina della guardia nazionale, ha scatenato una rabbia incontrollabile che ha causato il ferimento di decine di persone, la distruzione di beni pubblici in qualche modo collegati alle istituzioni responsabili della sicurezza e la distruzione dal sapore molto simbolico della una valvola di un pozzo di petrolio dal sapore molto simbolico. Quarant’otto ore dopo, il capo del Governo lanciava un’operazione anticorruzione che eclissava gli eventi del Sud. Ma, nella zona di El Kamour, i sit in vanno avanti da almeno due mesi. A Al Hoceima, nel Nord-Est del Marocco, nei giorni scorsi ci sono stati seri scontri. La polizia ha arrestato già una ventina di persone. “In Algeria, gli scatti di nervi non si contano più. I giovani sono pressati dal potere e dai religiosi. Non ha prospettive ed è avvolta da angoscia esistenziale. E’ imprigionata in una sorta di rete dalla quale non riesce a liberarsi. In Algeria la collera è giornaliera e gli scontri si contano a migliaia ogni anno. Il regime prova solo disprezzo e arroganza nei confronti dei giovani”, afferma lo scrittore algerino Boualem Sansal, che dal 1992 porta avanti la sua condanna nei confronti del Fondamentalismo Islamico.
Se l’Algeria, il Marocco e la Tunisia sono Nazioni con regimi politici divergenti tra loro, con usi e costumi sociali divergenti, dalle culture con mille sfumature diverse da un Paese all’altro, un comune denominatore esiste: l’esasperazione di gran parte dei suoi giovani. L’esasperazione nei confronti di uno Stato giudicato di parte, ingiusto, che protegge i potenti schiacciando coloro che stanno alla base della piramide e con un’amministrazione che fa della puntigliosità un capolavoro di sadismo. Gli scatti di collera registrati ad intervalli regolari fanno ormai parte della quotidianità. Ci si commuove, si disquisisce, si litiga negli incontri televisivi, poi si dimentica. Ma il risentimento si nutre di questo statu quo. E l’irrazionale spesso vince sulla prospettiva di un futuro costruito sulla realtà e non sull’utopia. I giovani si aspettano tutto dallo Stato, Stato che non può più rivestire un ruolo paternalistico. Nel 1992, l’opinionista e commentatore televisivo americano James Carville apostrofava il candidato Democratico Bill Clinton con questa frase: “It’s economy, stupid”, imponendogli di concentrare la sua campagna e le sue azioni future sull’economia, andando sin senso inverso a George Bush. Da allora questa frase è stata spesso utilizzata in politica. Forse sarebbe un bene che i Paesi del Maghreb vi ci soffermassero e la facessero propria.
Il tasso di disoccupazione dei giovani pubblicato dalla Banca Mondiale è allarmante: 31.8% in Tunisia, 29,9% in Algeria, 38,8% in Marocco (giovani delle città). Nel Regno di Mohamed VI si sta puntando sul Continente africano per far si che il Paese diventi una hub logistica, bancaria e politica tra l’Europa e l’Africa. Una strategia interessante, ma che vedrà i suoi frutti a lungo termine. In Algeria, tra le macerie della fine regno di Abdelaziz Bouteflika, si aspetta la fine del regime. Le elezioni politiche dello scorso 4 Maggio lo hanno dimostrato in modo esplicitamente assurdo: i due Partiti che guidano il Paese hanno avuto meno voti che le schede bianche o nulle. E l’economia algerina, che dipende per il 90% dai proventi degli idrocarburi, va a fondo con un barile di petrolio il cui prezzo oscilla tra i 49 e i 52 dollari.
Per quanto riguarda la Tunisia, la sua trasformazione in regime Democratico gli è valsa le lodi dei partner internazionali. Ma la sua politica economica – sette Governi si sono succeduti dal 2011 – ha portato il Fondo Monetario Internazionale ad esprimere educate rimostranze. Se il turismo riparte dopo essere stato pesantemente colpito dagli attentati (Bardo e Sousse), se il settore del fosfato riprende la sua attività normale dopo anni di scioperi e malversazioni, la Tunisia conta ancora 650.000 disoccupati. Missione difficile per il capo del Governo, cui parte del budget è gravato dagli stipendi dei funzionari e il rimborso del debito. Per mancanza di riforme strutturali il suo margine di manovra è molto stretto, mentre le esigenze sono infinite.
Se lo Stato, che sia quello algerino, marocchino o tunisino, non è più in grado di dare lavoro a tutti i suoi giovani, può comunque agire in modo da dopare un’economia anemica. La lotta contro la corruzione, una formazione nazionale pragmatica priva dei diktat ideologici e la creazione di un clima favorevole all’imprenditoria porterebbe a far si che lo Stato non diventi più unico ricettacolo di qualsiasi frustrazione.
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