Paolo Villaggio, La voce della luna

Funerali laici stamattina alla Casa del Cinema di Roma per Paolo Villaggio scomparso lunedì all’età di 84 anni. Era ricoverato dai primi di giugno nella clinica privata Paideia di Roma dopo essere stato seguito anche dal policlinico Gemelli. Genovese purosangue, amico intimo di Fabrizio De André con cui scrisse la ballata Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, scrittore, sceneggiatore, straordinario attore comico e drammatico. Il suo ragionier Fantozzi, insieme a Fracchia e a Kranz tedesco di Germania, hanno fatto la storia dell’intrattenimento cinematografico–televisivo. Noi vogliamo ricordarlo andando a rivedere un film ingiustamente sottovalutato in cui è diretto da Federico Fellini.

La voce della luna (1990) è il film manifesto della polemica nei confronti della televisione, una pellicola geniale e bizzarra interpretata da Roberto Benigni e Paolo Villaggio. Benigni è un personaggio a metà strada tra Pinocchio e Leopardi, un poeta ingenuo e romantico che vaga per la campagna padana, insegue sogni d’amore e sente da sempre la voce della luna. “Se tutti facessimo un po’ di silenzio forse qualcosa potremmo capire”, dice nell’ultima sequenza del film, dopo aver parlato con la luna. Villaggio è l’ex prefetto Gonnella, un paranoico compagno di viaggio che con un’espressione stralunata rappresenta la follia. Villaggio si difende dai suoi simili, non accetta di invecchiare, rifiuta le occupazioni comuni e vede nemici ovunque. La storia si ispira al Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni ed è ambientata in una scenografia onirica ricostruita in studio che trasporta l’azione fuori dal tempo.

La voce della luna è un elogio della follia e una satira della civiltà contemporanea, ormai berlusconizzata. Fellini sceneggia il film insieme a Cavazzoni e Tonino Guerra, che lo costruiscono attorno a parti poetiche e divagazioni surreali. L’attacco è molto lirico, si susseguono diverse parti oniriche che vedono protagonista Benigni e i ricordi d’infanzia. Vediamo un gruppo di uomini intenti a spiare una donna formosa, vero mito felliniano, spiegato con la storia della via Lattea formata dai bianchi schizzi usciti dai seni enormi di Giunone. “Non ascoltare la voce dei pozzi”, è il refrain che sente il poeta sognatore, da sempre condizionato dalle parole della luna.

Il film è frammentario, ma alcuni episodi sono ben riusciti, come il racconto del vecchio professore impazzito perché la musica si è messa a evocare fantasmi. Una scena di grande cinema è quella con il padreterno che va in carrozza, mentre Benigni ricorda la nonna e sussurra: “Come mi piace ricordare. Più che vivere. Del resto che differenza fa?”. Benigni è un poeta innamorato e non corrisposto, recita Alla luna di Leopardi a una ragazza bella come la luna, ma lei non lo considera, preferisce un avventore alla sagra dello gnocco. Benigni si vendica, mentre il regista cita la pochade e le comiche del muto con una sequenza che vede gli gnocchi finire in testa al malcapitato. È degna di menzione una scena di rilevanza simbolica con i giovani che gridano in discoteca ma ammutoliscono davanti al valzer di Gonnella e della duchessa. Non è da meno la sequenza fantastica di Marisa, moglie insaziabile che si trasforma in una locomotiva. La cattura della luna nel pozzo è un’ottima parte onirica che fa da contrasto con la sagra dello gnocco, simbolo di un’Italia sempre più godereccia e rivolta al mercato.

Il film è un contenitore di dubbi e domande che accennano alla politica contemporanea e alla religione. “Perché la Madonna appare sempre a dei pastorelli ignoranti e non a un uomo colto che potrebbe chiedere spiegazioni?”, si chiede un personaggio. Vediamo un parroco che non è sicuro dell’esistenza di Dio, secondo lui ci sarebbero cinquanta possibilità su cento, ma non lo può dire perché deluderebbe i fedeli. Benigni – Pinocchio cerca il silenzio, la pace d’un tempo: “Mi sembra che tutta la mia vita sia questa notte…Vivere finalmente liberi. Liberi nel cuore. E invece vedo solo ingiustizie. Questo è progresso? Niente di fermo, di sicuro…”. Le grandi domande, l’infanzia come un ricordo languido, la polemica religiosa e infine la luna che parla, ma si interrompe per un messaggio pubblicitario. Tutto termina con la ricerca dell’agognato silenzio, nello scenario surreale della finta campagna padana.

Tonino Delli Colli realizza un’ottima fotografia notturna, Dante Ferretti compone una scenografia fantastica e Maurizio Millenotti cura i costumi. La voce della luna è un film importante per capire l’Italia degli anni Ottanta, ma non viene premiato da pubblico e critica. L’ultimo film del regista riporta alle atmosfere oniriche di Amarcord e di Otto e mezzo, ma soprattutto mette in primo piano feroci critiche sull’Italia berlusconiana. Fellini torna con i pazzi nella campagna per ascoltare le sue voci, i suoi bisbigli, lontano dal clamore della città. Vediamo citazioni esplicite da Otto e mezzo (la casa della nonna a Gambettola) e da Amarcord (la passeggiata sul Corso, il matrimonio di Gradisca), pure se vengono caricati di nuovi simboli. Fellini esprime amarezza nei confronti di un mondo che non sa dare risposte a quesiti profondi, soprattutto cerca di nasconderli tra luci e frastuono. Fellini prova nostalgia per una cultura diversa, mai urlata, ma fatta di confidenze e di dubbi. I simboli che il regista inserisce a piene mani ne Le voci della luna dicono proprio questo: da un lato immagini sgradevoli della festa dello gnocco e di baracconi montati e smontati, dall’altro la poesia delle sequenze del cimitero, dei pozzi, della pioggia e della campagna di notte.

Federico Fellini afferma a proposito de La voce della luna: “Tenta di esprimere il malessere, la sconfitta della fine delle ideologie e dell’aridità del sentimento, segue i due protagonisti nel vagabondaggio lungo un itinerario assurdo, oscurato dalla frammentazione della realtà circostante”. E sugli interpreti esprime soltanto elogi: “Benigni e Villaggio, questi due magnifici clown, non hanno mai avuto battute, La voce della luna non aveva sceneggiatura. Arrivavo al trucco con pezzetti di carta che avevo scarabocchiato la sera prima. Ho fatto un bel viaggio sottobraccio a Lucignolo e Pinocchio”. Fellini ricostruisce un paese con un’architettura surreale e improbabili accostamenti urbanistici (una chiesa accanto a una banca) per sottolineare la fine delle idee quando tutto serve da scusa per un battage televisivo. La cattura della luna produce soltanto uno stupido dibattito, comportamenti cafoni e domande inutili. Le antenne dominano la città, i tetti perdono il loro aspetto romantico per diventare sede di innumerevoli recettori di immagini.

“La televisione è una possessione. Non esiste esorcista capace di allontanare l’invasione intossicante di milioni d’immagini”, conclude il regista. L’Italia è diventata un paese dove è impossibile isolarsi e fare silenzio, regnano le frasi fatte, le pubblicità inutili, i rumori assordanti e le persone che parlano ma non dicono niente.

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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