Nord Corea, ipotesi sulle provocazioni nucleari

Nel giorno della celebrazione dell’Indipendenza americana, il leader nordcoreano Kim Jong-un presiede all’ennesimo lancio missilistico e saluta lo Zio Sam con la dimostrazione di possedere un vettore intercontinentale in grado di raggiungere l’Alaska.

La Repubblica democratica di Corea ha dunque sperimentato, questa volta con successo, dato il fallimento del precedente lancio, le potenzialità del Hwasong-14, missile a testata nucleare che ha volato per 39 minuti, coprendo una distanza di 933 chilometri, a un’altitudine apicale di 2.802 chilometri, poi inabissatosi in mare, a qualche centinaia di miglia dalle coste nipponiche. Gli esperti statunitensi di balistica sembrano confermare che, con un’inclinazione molto meno acuta, il razzo avrebbe goduto di un incremento di gittata tale da minacciare effettivamente il territorio continentale nordamericano, facendo crollare la trumpiana certezza del contrario.

A nulla sono valsi i divieti contenuti nelle risoluzioni Onu: Kim Jong-un prosegue imperterrito per la sua strada, accelerando sulla propaganda interna e portando avanti la programmazione missilistica e le provocazioni sullo scenario mondiale.

Trascurando i tweet del presidente Trump, che a livello di comunicazione formale lasciano il tempo che trovano, le reazioni di Washington sembrano indirizzarsi a soluzioni anche unilaterali, qualora non dovessero incrociare il sostegno dei maggiori attori internazionali. Dopo aver convocato con urgenza il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Casa Bianca ha, in ogni caso, immediatamente disposto il lancio – da basi americane in Sud Corea – di alcuni missili di precisione nelle acque territoriali del Paese.

“La minaccia è globale” dichiara il segretario di Stato Usa Rex Tillerson, “e va affrontata con una risposta globale”. Trump ha subito tirato a sé il Giappone, diretto interessato per il fatto che i razzi nordcoreani spesso cadono nel braccio di mare antistante le sue coste, e ha chiamato in causa la Cina, esortandola a fare di più contro le intemperanze del vicino. Il presidente cinese Xi Jinping, in accordo col Cremlino, pur ribadita l’inaccettabilità dell’atteggiamento di Pyongyang, si limita a mitigare le tensioni, proponendo una moratoria ai test missilistici nordcoreani, in caso di rinuncia di Washington e Seul a esercitazioni militari congiunte.

Riemerge, quindi, un vecchio leitmotiv, da sempre avanzato dai cinesi nei confronti di Washington e rifiutato finora da Trump e dal predecessore Obama: sul piatto, lo stretto rapporto intercorrente tra Stati Uniti e Sud Corea sul piano politico, economico e militare. Al pari di Israele nel mondo arabo, pur con le debite differenze, Seul è vista come un avamposto americano in Estremo Oriente; sia Pechino che Mosca sarebbero ben felici del raffreddamento di questo sodalizio e, nella più rosea delle prospettive, di un nuovo assetto geopolitico dell’area.

Dal canto suo, Kim Jong-un può sfruttare la situazione e aumentare la frequenza dei test, con corrispondente sviluppo del livello tecnologico del proprio arsenale. Una volta conquistato un posto tra le grandi potenze nucleari, può rimanere comodamente alla finestra, in attesa di succulente contropartite, magari perorate proprio dai vicini di casa, in cambio di un congelamento del suo pericoloso programma missilistico.

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