Il “Russiagate”
L’inchiesta, o meglio la serie di inchieste (giornalistica, giudiziaria, parlamentare) sui rapporti tra l’entourage di Trump e la Russia durante la campagna elettorale, riserva quasi ogni giorno nuove rivelazioni. Due grandi quotidiani, il New York Time e il Washington Post, hanno posto tutte le loro grandi capacità investigative su questo tema e non lasceranno facilmente la presa.
Vediamo di capire cosa è emerso finora. È ormai certo che da parte di persone od organismi russi ci fu una pesante interferenza nella campagna, attraverso messaggi elettronici mirati. Neppure Trump lo nega ormai, tanto che è stato reso noto che egli ne ha parlato con Putin ad Amburgo. Che il Presidente russo neghi tutto, è naturale, ma non cambia affatto la realtà della cosa. Sono emersi inoltre frequenti contatti tra stretti collaboratori di Trump e persino persone della sua famiglia (il figlio Donald jr. e il genero) con l’Ambasciatore russo e con altre persone vicine al Cremlino. Sul contenuto preciso di questi incontri è trapelato poco, essendo i partecipanti ovviamente interessati a minimizzarne la portata, mentendo od omettendo la verità. Ma con un po’ d’immaginazione non è difficile ricostruirlo. A Mosca non erano certo sfuggite le disposizioni amichevoli manifestate da Trump durante la campagna e si era deciso di dare al candidato repubblicano l’appoggio possibile. A un certo punto, come è emerso dallo scambio di email tra Donald jr. e un collaboratore, da parte russa si era proposto di fornire elementi compromettenti a carico di Hillary Clinton. Non è chiaro se ciò sia avvenuto (è probabile di no), ma Donald jr. aveva accolto la prospettiva con entusiasmo. Insomma, l’insieme degli elementi disponibili fa pensare che tra l’entourage del candidato e la dirigenza sovietica si era creato un clima di comprensione e persino di complicità, nell’attesa da parte di Mosca di comportamenti favorevoli da parte americani ad elezione avvenuta.
Questi comportamenti in realtà sono stati bloccati dall’esplosione del Russiagate che ha messo Trump in una posizione difficile e ha posto ogni aspetto dei rapporti con Mosca sotto una lente di ingrandimento (ho scritto, e continuo a pensare, che nell’establishment di Washington la Russia continua a essere vista come un avversario di cui diffidare). Un risultato della leggerezza mostrata dai collaboratori di Trump nei contatti con i russi durante la campagna ha dunque fortemente limitato di movimento diplomatico del Presidente americano, il che è in sé un male, giacché la ricerca di un dialogo costruttivo con la Russia, pur che serio e cogli occhi aperti, è una cosa opportuna e necessaria.
È davvero grave tutto questo? Può portare a considerare l’elezione di Trump viziata di illegittimità? Agli stato degli atti, e se non emergono altri elementi più pesanti, direi che siamo ancora nell’ambito politico, non legale. Lo scandalo costerà politicamente a Trump, ma difficilmente ne porrà in questione la legittimità. Diverso sarebbe il caso se emergessero prove certe che Trump, direttamente o attraverso i suoi più stretti collaboratori, ha consapevolmente richiesto, o comunque accettato, l’appoggio russo, in cambio di vantaggi futuri per Mosca.
Altro elemento di gravità che resta sullo sfondo consiste nel tentativo di silenziare l’inchiesta dell’FBI, giunto fino al licenziamento del suo direttore, perché ciò costituisce “ostruzione di giustizia”, cioè un crimine passivo di conseguenze pesanti, compreso l’impeachment. Siamo ancora lontani da questo, ma il fronte è aperto e possiamo attenderci altri sviluppi.
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