Cronache dai Palazzi
L’Unione europea rimarca le piaghe del Belpaese e ne denuncia non solo la debole stabilità politica ma ne rileva anche lo stato di povertà, l’ampliamento dell’esclusione sociale, i bassi livelli di competitività, l’export sofferente, le elevate tasse sul lavoro e sul capitale.
Da Lipsia, dove è intervenuto al congresso della Spd tedesca, il presidente del Consiglio difende però l’Italia affermando che non è “un Paese assistito”. “Noi non abbiamo chiesto un euro di prestito” sottolinea Letta, che aggiunge: “È possibile fare politiche comuni per la crescita e per la lotta alle diseguaglianze”. In fondo come insegna Rawls, una società più giusta e più equa corrisponde ad uno schema di cooperazione stabile nel tempo plasmato da un principio base di reciprocità di cittadinanza.
Il premier reclama più Europa per combattere la crisi e per realizzare una ‘crescita solidale’. L’Italia “può chiedere una svolta in politica europea”, precisa Letta, le cui parole fanno da controcanto a quelle dell’Ue per la quale l’indebitamento rappresenta comunque “una significativa fragilità per il Paese, date anche le prospettive di crescita debole”. I dati della Banca d’Italia fotografano un debito pubblico in lenta ma costante crescita: a settembre ha raggiunto quota 2.068 miliardi, 8 in più rispetto ad agosto.
Per l’Unione europea l’Italia deve dare la percezione di voler avanzare, deve quindi sciogliere il nodo delle riforme, riguardo alle quali per ora i progressi sono ancora limitati; deve diminuire la pressione fiscale sulle famiglie e sulle imprese e non può beneficiare di ulteriori ‘bonus Ue’ per gli investimenti nel 2014 perché l’Italia resta a rischio sforamento; deve mantenere, infine, una quadro politico stabile.
Esposta a continui attacchi distruttivi e vittima, molto spesso, di discussioni inutili, in Italia “la politica ha drammatica necessità di recuperare partecipazione, consenso e rispetto – ha ammonito il Capo dello Stato nel suo discorso durante la visita del Pontefice al Quirinale – liberandosi dalla piaga della corruzione e dai più meschini particolarismi”.
“È tempo di levare più in alto lo sguardo, di riguadagnare lungimiranza e di portarci al livello delle sfide decisive che dall’oggi già si proiettano sul domani”, ha affermato Napolitano rivolgendosi all’intera “classe dirigente italiana” e applicando al suo discorso un crudo “linguaggio della verità” che in rare occasioni il presidente può pronunciare così direttamente. Riferendosi a papa Francesco Giorgio Napolitano ha espresso, ad alta voce, la speranza “che la politica possa trarre uno stimolo nuovo dal suo messaggio e dalle sue parole”. Un messaggio rivolto “non soltanto ai cattolici, ma a tutti gli uomini di buona volontà”.
È di entrambi l’auspicio che l’Italia possa liberarsi dalle catene della crisi, ritrovando la “creatività e la concordia necessarie al suo sviluppo”, come ha affermato il Pontefice. Dall’alto della sua carica e come lungimirante uomo delle istituzioni, il presidente della Repubblica ha a sua volta sottolineato che la politica può riuscire nell’impresa di liberarsi “dai più meschini particolarismi” esclusivamente “rinnovando – insieme con la sua articolazione pluralistica – le proprie basi ideali, sociali e culturali”. Punti di vista che coincidono, quindi, e una comunione di intenti chiara ed evidente favorita da una concreta stima reciproca.
Gli interessi particolaristici e i giochi di potere sono però all’ordine del giorno e la tumultuosa quotidianità che pressa le istituzioni non favorisce una debita ‘cultura dell’incontro’ e del ‘dialogo’. La politica è attanagliata da “un clima avvelenato e destabilizzante”, è “stravolta da esasperazioni di parte” che acuiscono “la gravità dei problemi del Paese”.
Tutto ciò è evidente (e preoccupante) soprattutto all’interno dei partiti, in primo luogo all’interno di Pd e Pdl dove sono in atto delle estenuanti lotte intestine tra oligarchie di potere. Nel Pdl cresce giorno dopo giorno il rischio di una scissione post decadenza (27 novembre) tra lealisti e governativi; il leader dei governativi Angelino Alfano reclama l’unità e l’appoggio all’esecutivo di larghe intese anche al di là del triste evento ma la scissione è una questione ancora aperta. Il Cavaliere combatte quotidianamente tra la rottura e un rinnovato compromesso con le larghe intese, compromesso che però risulterà difficile instaurare (di nuovo) qualora fosse privato del suo scranno al Senato.
Sull’altro versante, il Pd è segnato dalla lotta intestina per la nomina del nuovo segretario, e già tuonano le minacce. “La partita del Congresso non è chiusa, anzi”, ha affermato D’Alema in un’intervista su l’Unità. Se poi Renzi vincerà D’Alema sostiene che non potrà pensare di “impadronirsi di un partito che in larga misura l’osteggia”. Il sindaco di Firenze dovrà avere l’accortezza di rappresentare un mondo più vasto guadagnandosi anche il consenso di coloro che non sono dalla sua parte. “Se il risultato fosse plebiscitario c’è il rischio che una parte del Pd non si senta più nelle condizioni di viverci dentro”, ha ammonito l’ex premier.
In definitiva sono tre le date cruciali alle quali è legata la stabilità del Paese: il 16 novembre (Consiglio nazionale del Pdl), il 27 novembre (voto sulla decadenza) e l’8 dicembre (le primarie del Pd). Anche la riforma della legge elettorale è appesa ai suddetti tre appuntamenti e su di essa si continua a temporeggiare barcamenandosi tra “Porcellum”, “Mattarelum” e infine un “Super Porcellum” sancito, eventualmente, per decreto legge. Il “briciolo di responsabilità” richiesto per l’ennesima volta dal Capo dello Stato non accenna ad affermarsi e le forze politiche, tutte, sembrano non temere l’esame della Corte Costituzionale che potrebbe arrivare in dicembre anche se, paradossalmente, la Consulta potrebbe cavarsela con un semplice monito al Parlamento dovuto molto probabilmente all’intricata situazione politica.
In questo contesto l’esecutivo è sorretto da una strana maggioranza piuttosto solida e decisa ad andare avanti con la schiena dritta ma quotidianamente minacciata, sia da destra sia da sinistra, soprattutto a proposito della legge di Stabilità che con i suoi oltre tremila emendamenti rischia la confusione più totale. Anche l’Europa, obiettivamente, sostiene che i tremila emendamenti sono “troppi” – ridotti ora di 1000 unità, emendamenti dichiarati ‘inammissibili’ dalla Commissione Bilancio del Senato – e chiede che vengano apportati degli aggiustamenti sostanziali alla legge di Stabilità della quale si teme un ulteriore indebolimento in Parlamento; occorrerebbe dire che così tanti emendamenti sono anche insostenibili perché il loro eccessivo peso rischia, inevitabilmente, di far collassare una legge già di per sé fragile per ovvie congiunture economiche e politiche. In parte è vero – come afferma il presidente del Consiglio – che nelle acque in cui si naviga questa legge di Stabilità – e in generale tutto il lavoro del governo – non è “troppo poco”, ma di certo non è ancora ‘abbastanza’ per tornare a galla.
La legge di Stabilità, infine, viene spesso tristemente usata per celare il caos interno ai partiti che vivono (un po’ tutti) una stagione di difficile restaurazione, ma la verità è che sulla legge di Stabilità non si vince e non si perde, perché in gioco c’è il Paese; di conseguenza Pd e Pdl dovrebbero rassegnarsi al pareggio e al ‘dialogo’, invece di continuare a giocare con la Stabilità dell’Italia per mascherare, in realtà, la confusione che attanaglia le proprie oligarchie.
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