Pasticciaccio iberico, Catalogna verso la secessione?
E’ certamente un tema che terrà banco – nei giorni a venire – non solo in seno al dibattito politico interno della Spagna, ma anche sugli altri tavoli europei. Il referendum indipendentista indetto dalle istituzioni catalane, nonostante la dichiarazione di illegittimità pronunciata dalla Corte costituzionale iberica, si è svolto comunque, sebbene in condizioni d’estrema difficoltà. Le operazioni di voto sono state caratterizzate dall’intervento indubbiamente aggressivo dei circa 10.000 agenti in tenuta anti-sommossa della Guardia Civil e del corpo di Policia Nacional, inviati dal governo di Madrid a smantellare i seggi che i Mossos d’Esquadra, forza di polizia regionale, si erano rifiutati di chiudere.
Le tensioni hanno percorso l’intera giornata del 1 ottobre e cariche violente della polizia, soprattutto nella città di Barcellona, sono state effettuate contro votanti inermi e pacifici, ma determinati a recarsi alle urne per esprimere la propria volontà. La sofferta consultazione – minata alla vigilia da un’offensiva dello Stato centrale, materializzatasi in sigillo di numerosi seggi, sequestri di schede elettorali, blocchi di invii postali, disattivazione di applicazioni informatiche utilizzabili per la conta elettronica dei voti e per il suffragio on line, arresti di funzionari dell’amministrazione catalana e intimidazioni con multe salatissime per i membri della giunta elettorale – ha confermato la vittoria, peraltro scontata, del Sì con numeri superiori al 90%, in contrapposizione al 7,8% dei No. Hanno partecipato al voto 2,2 milioni di elettori sui 5,3 chiamati alle urne. Jordi Turull, portavoce della Generalitat, il governo catalano presieduto da Carles Puigdemont, ha dichiarato che – in condizioni di normalità – l’affluenza al voto avrebbe raggiunto il 55%.
Il bollettino medico post referendum, diffuso dalle autorità catalane, riporta 844 civili feriti in seguito a cariche della polizia; Madrid, invece, lamenta il ferimento di 33 agenti, 19 della Policia Nacional e 14 della Guardia Civil.
Quella del separatismo catalano è una questione che parte da lontano, affondando le proprie radici storiche e culturali – secondo i suoi sostenitori – addirittura nel XVII secolo.
E’ riemersa prepotentemente con l’attuale crisi economica e la perentoria negazione dell’esecutivo di Mariano Rajoy di concedere alla regione una maggiore autonomia finanziaria. La Catalogna, da sola, copre il 20% del prodotto interno lordo del Paese, ha un’estensione territoriale pressoché doppia rispetto alla nostra Lombardia, 7 milioni di abitanti e un proprio idioma, che fu lingua ufficiale del regno d’Aragona. Molti analisti, pur riconoscendo la diversità dei presupposti e della situazione in corso nel caso catalano, non disdegnano di accostarne l’impulso secessionista al possibile prosieguo d’una sorta di balcanizzazione dell’Europa, originatasi col processo di disgregazione che trasformò, all’indomani della scomparsa di Tito, la Jugoslavia in una frammentazione di piccoli Stati (Slovenia, Bosnia, Serbia, Croazia, Kosovo, Macedonia e Montenegro), impegnati per anni in sanguinosi conflitti incrociati etnico-religiosi, aggravati anche dalla motivazione economica: in tempi di vacche magre, le repubbliche con maggiori risorse non volevano pagare anche per quelle più povere.
Oggi, Puigdemont afferma che la Catalogna non è solo un affare interno, ma anche europeo. La disgraziata gestione della faccenda da parte del premier spagnolo Rajoy – intento a tutelare sì unità e integrità nazionale dalle conseguenze di un atto dichiarato incostituzionale, ma, ahimè, ricorrendo all’uso indiscriminato della forza, come appare da espliciti video e crude immagini che stanno facendo il giro del web – ha macchiato di antidemocraticità la reazione dello Stato centrale, rafforzando il sentimento indipendentista dei Catalani e quasi legittimandolo agli occhi del mondo. Le contromisure repressive madridiste sono da taluni addirittura accomunate a una certa attitudine castigliana “machista”, forse figlia di residui di franchismo non del tutto sopiti; e appaiono ancor più fuori luogo e ingiustificate, se applicate in una regione che non ha incubato il germe del terrorismo per affermare il principio alla propria autodeterminazione. Insomma, a Barcellona e dintorni non si sono mai creati gruppi paramilitari e fuorilegge sulla falsariga dei separatisti baschi dell’Eta.
Di riflesso, da questa storia, ne esce male la stessa Unione Europea di cui la Spagna è partner, istituzione che – per assimilazione – viene identificata dai cittadini non più come simbolo di coesione e comune crescita per i Paesi membri, quale dovrebbe essere, ma come espressione di un potere centralizzato e autoritario. Affatto un bel segnale, proprio in un momento storico di calo degli indici di gradimento pro Ue e della comparsa di forti spinte antieuropeiste un po’ ovunque, all’interno del Vecchio Continente, disponibili ad appoggiare qualsiasi iniziativa centrifuga e contraria alla supervisione di Bruxelles. Il referendum indipendentista catalano trova, in questo frangente, il sostegno del partito spagnolo Podemos, pronto a condannare eventuali atti governativi in violazione al diritto di riunione e manifestazione. All’orizzonte, entro un breve lasso di tempo dopo gli esiti consultivi positivi, potrebbe essere attivata la “ley de desconexion”, dichiarazione unilaterale d’indipendenza sottoscritta dal parlamento regionale, che segnerebbe il formale inizio del processo di separazione.
Dopo le violenze della polizia, gli agenti ospitati in alberghi catalani si sono visti mettere in strada le valigie con l’invito ad andarsene. Sono previsti scioperi e iniziative di vario genere, con anche l’adesione del club di calcio per eccellenza, il Barcellona, che ama da sempre definirsi non solo una squadra, ma un rappresentante del popolo catalano e della sua causa nel mondo dello sport. Al di là, tuttavia, della risposta d’orgoglio, la sensazione diffusa è che Puigdemont voglia molto più realisticamente aprire dei negoziati con Madrid e raggiungere una soluzione concordata, che soddisfi le velleità autonomistiche catalane. In tale eventuale scenario, la Ue, da dietro le quinte, potrebbe adoperarsi come interlocutore terzo ed esercitare pressioni per comporre la crisi e riportare alla ragione ambedue i contendenti, perché, alla fine, l’unica via percorribile per uscire da questo vicolo cieco è la mediazione. Senza di essa, con tutte le cause secessioniste pendenti in Europa, fondate o ridicole che siano, ci ritroveremmo probabilmente davanti a una mappa geografica del tenore di quella che qui riportiamo.
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