Migranti, a rischio l’accordo con la Libia
Sabratha, principale porto libico di partenza per migranti diretti in Italia, ha mutato controllore. Stessa sorte per Mellitah, sede dell’hub dell’Eni e indice di quella presenza italiana che tanto infastidisce le mire espansionistiche sul petrolio locale di francesi e britannici. E infatti, da fonti d’intelligence, sembrerebbe che dietro al cambio della guardia ci sia lo zampino di qualche loro specialista.
Nell’agosto scorso, il governo Gentiloni aveva stretto un accordo con l’esecutivo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu, secondo il quale le milizie dei fratelli Dabbashi, di stanza a Sabratha, a sostegno di Sarraj, sarebbero intervenute direttamente nei siti d’imbarco libici, per porre un freno ai flussi migratori verso l’Italia. I Dabbashi, ex trafficanti di clandestini convertitisi a braccio armato di Tripoli, previo nostro generoso versamento di denaro per finanziare le operazioni di blocco, sono riusciti a ridurre drasticamente esodo e sbarchi verso le coste italiane. Questo, probabilmente, grazie ai metodi poco ortodossi affinati nella loro precedente “iniziativa imprenditoriale”, ora impiegati in senso inverso per “scopi più istituzionali”. Ricordiamo come la questione – sotto l’aspetto umanitario – abbia innescato non poche polemiche; formalmente, tuttavia, Roma ha trattato con Sarraj, interlocutore legittimato sul piano internazionale.
Il sopraggiunto intoppo è che adesso, dopo circa tre settimane di scontri, una piccola coalizione di milizie, identificata col nome di Operations Room, ha cacciato dall’area di Sabratha il clan Dabbashi, dal 2015 – oltre tutto – incaricato privatamente dall’Eni di proteggere e garantire la sicurezza del suo impianto petrolifero a Mellitah.
Operations Room sembrerebbe appoggiare il diretto rivale di Sarraj, l’irriducibile generale Haftar, fedele al parlamento della Cirenaica e oppositore del piano Onu che auspica una piena affermazione del governo di Tripoli nella totalità del frammentato territorio libico. La prospettiva contraria in cui si pone il generale costituisce una chiara minaccia all’accordo sul sigillo dei flussi raggiunto da Roma. Non a caso, negli ultimi giorni, Gentiloni ha incontrato Haftar, per estendergli i termini del patto.
Resta, ad ogni buon conto, l’incognita dell’effettiva fidelizzazione al generale da parte di Operations Room, fazione anti-Isis, che nell’area – come tutti – persegue principalmente obiettivi personali. Haftar avoca a sé la predetta coalizione di milizie e il vertice della stessa si dichiara disponibile a subentrare alla famiglia Dabbashi nelle funzioni concordate con l’Italia. Come è noto, il principale problema dei Paesi stranieri presenti in Libia, per la negoziazione di strategie comuni finalizzate alla stabilizzazione della situazione interna e alla tutela dei propri interessi economici in situ, è la precarietà e provvisorietà dell’interlocutore di turno, nonché la spregiudicatezza, talvolta necessaria per ottenere risultati, che porta a stringere compromessi con personaggi di dubbio profilo e non comprovata rappresentatività.
Nelle ultime ore, per Minniti e il nostro ministero dell’Interno, si sta aprendo un ulteriore fronte: il blocco dei flussi a Sabratha ha spostato i riferimenti dei migranti in Tunisia. Il timore dei nostri servizi di sicurezza è che, nei prossimi giorni, s’inauguri una nuova rotta mediterranea per l’Italia, con l’aggravante di massicce infiltrazioni di terroristi e foreign fighters – di cui lo Stato nordafricano è provvido fornitore – e di soggetti appena usciti dalle patrie galere, grazie al recente indulto concesso dall’apparato giudiziario tunisino.
Il rischio è, dunque, duplice. In primo luogo, si sfati, una volta per tutte, il mito che sia impossibile l’ingresso in Italia di jihadisti infiltrati nei flussi migratori; gli esiti investigativi sulle recenti stragi in Nord Europa, rivendicate dall’Isis, confermano che gli attentatori, sbarcati sulle nostre coste, hanno usato la penisola come base logistica per poi colpire nel resto del continente. Alcuni vi hanno vissuto per anni e, successivamente, si sono radicalizzati, abbracciando l’integralismo islamico. In secondo luogo, potremmo ritrovarci con un sensibile incremento dell’indice di criminalità comune, trend peraltro già rilevato, a causa dell’arrivo di clandestini con precedenti penali, in percentuali sempre crescenti rispetto al classico migrante economico, pronti a delinquere in Italia, approfittando dell’inadeguatezza del nostro sistema d’accoglienza e dei freni tirati delle forze dell’ordine, nonché schermandosi dietro il buonismo – acritico e non sempre giustificabile – di parte della politica. Secondo dichiarazioni di agenti di polizia, in servizio presso i centri d’accoglienza, tra i nuovi arrivi non figurerebbero affatto rifugiati o disperati in fuga da povertà e carestie; sono, in prevalenza, giovani africani maschi tra i 20 e 30 anni, forse stanchi del viaggio ma senza particolari segni di denutrizione, con molte pretese e nessuna voglia d’inserirsi nel tessuto sociale di un Paese che – a dire il vero – un piano d’integrazione non ce l’ha. Le new entry manifestano una forte predisposizione a creare disordini e ad alimentare tensioni con la cittadinanza per via dei comportamenti irrispettosi e illegali assunti, fra cui le impunite scorribande, razzie e rivolte di cui si sono resi protagonisti nei territori di sbarco (in Sardegna e, soprattutto, in Sicilia).
Alcune periferie delle grandi metropoli rischiano di collassare in stile banlieu per l’incontrollata pressione migratoria e, come si rileva da tempo, l’Italia, al di là delle belle parole di Bruxelles per gli sforzi profusi e qualche spicciolo “d’incerta” destinazione, rimane sola a tamponare le falle del problema che s’aprono, una dopo l’altra, in un pericoloso domino senza fine.
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