Cronache dai Palazzi

Una legge elettorale necessaria e in tempi brevissimi. Dopo ben 5 voti di fiducia la riforma del sistema di voto ha superato anche l’esame di Palazzo Madama. Il Rosatellum incarna la riforma del sistema di voto mentre il presidente Grasso si ritira dal Pd e passa al gruppo misto. “Forse poteva farlo prima”, è il commento del senatore pentastellato Vito Crimi che ha aggiunto: “Forse poteva fare qualche gesto un po’ più importante, come abbiamo più volte detto. Oggi è tardivo. Troppo tardivo”. Ha apprezzato invece il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza: “Chi serve lo Stato si trova spesso dinanzi a scelte difficili ed è proprio per questo che apprezzo il senso delle istituzioni sempre dimostrato dal Presidente del Senato”.

Condivisione quindi nei confronti della scelta di Grasso, il quale ha lasciato il gruppo del Pd “dopo le ultime gravissime scelte compiute”, ha ammonito Speranza, ribadendo: “La politica ha oggi più che mai bisogno di buoni esempi”. Anche per il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, le dimissioni di Pietro Grasso rappresentano “un fatto politico importante e positivo”.

Alla base della decisione del presidente del Senato vi è una riforma del sistema di voto approvata a colpi di fiducia e che ha quindi relegato nell’angolo il dibattito in Parlamento. Una fiducia che ha sancito la totale inemendabilità per cui il presidente emerito Giorgio Napolitano ha così aspramente criticato il percorso del disegno di legge: “Il dilemma non è fiducia sì o non fiducia, anche perché non è mai stata affrontata, neppure dinanzi alla Corte, un’obiezione di incostituzionalità della fiducia”. Piuttosto è necessario chiedersi “quali forzature può implicare e produrre il ricorso a una fiducia che sancisce la totale inemendabilità di una proposta di legge estremamente impegnativa e delicata”.

Il Rosatellum 2 è stato quindi approvato con un consistente ricorso alla fiducia che ha soffocato il dibattito nonostante l’evidente necessità di discutere diverse criticità di “merito”, che avrebbero richiesto un’ampia discussione dando spazio anche agli emendamenti. Contestato infine (e soprattutto) il “metodo” piuttosto decisionista, censurato dalla maggior parte dell’assemblea. Un percorso abbreviato pilotato dalla direzione del Partito democratico che ha condizionato, di conseguenza, anche il da farsi del governo Gentiloni. Il premier pur riconoscendo la frenesia della legge non ha ostacolato la buona riuscita della riforma del sistema di voto, accollandosi, in un certo qual modo e in maniera alquanto singolare e forse impropria, “la responsabilità di una fiducia che garantisse la intangibilità della proposta in quanto condivisa da un gran numero di partiti”, come ha precisato l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano nel suo j’accuse rivolto alla nuova legge elettorale e soprattutto alle dinamiche che hanno portato alla sua approvazione.

La domanda in sostanza è questa: “Si può far valere l’indubbia esigenza di una capacità di decisione rapida da parte del Parlamento fino a comprimere drasticamente ruolo e diritti, sia dell’istituzione sia dei singoli deputati e senatori?”

Dopo aver rimarcato la “sintonia” con Sergio Mattarella a proposito dell’urgenza e della necessità di una nuova legge elettorale ampiamente condivisa, Napolitano elenca alcuni elementi critici del Rosatellum che di certo meritano di essere rivisti e corretti. In primo luogo l’indicazione sulla scheda del nome del leader della forza politica e della coalizione, un elemento che fa percepire all’elettore la sensazione di votare direttamente il premier (cosa gradita a suo tempo da Berlusconi ed ora evidentemente anche a Renzi). Ed inoltre la mancanza del voto disgiunto che per Napolitano non rappresenta “un semplice tecnicismo”.

Pd, Ap, Scelta civica, Ala, Svp, sono stati, in sostanza, i partiti della fiducia, potenziati dai voti di FI e della Lega. Otto fiducie (3 alla Camera e 5 al Senato) hanno però provocato non poche polemiche sia dentro che fuori dal Parlamento, con i grillini bendati in piazza dove Grillo ha gridato che il nostro Paese “non ha gli anticorpi per difendere la democrazia”. Cinque Stelle e Mdp si sono opposti aspramente alla nuova legge elettorale, mentre determinanti per l’approvazione sono stati ancora una volta i verdiniani che ora mirano a giocare la loro parte per quanto riguarda l’approvazione della legge di Bilancio.

A proposito di legge di Bilancio torna a far discutere la questione che riguarda la fatturazione ogni 28 giorni nel campo della telefonia; questione già presa in carico dall’Agcom, l’autorità di garanzia per le comunicazioni, che aveva invitato gli operatori telefonici a mettersi in regola tornando alle scadenze mensili. Ogni 28 giorni significa che le mensilità diventano 13 anziché 12, con un aggravio delle tariffe in media dell’8,6%. Uno studio del Garante ha stimato il valore dell’operazione: quasi 900 milioni in più ogni anno solo per i clienti di rete fissa. Mentre altri 290  arriverebbero dalla telefonia mobile, da chi ha una sim per cellulare con abbonamento. La stima non tiene conto delle sim ricaricabili alle quali, tra l’altro, è stata applicata la manovra finanziaria per prime. Questa situazione “va messa a posto il più rapidamente possibile perché è una cosa inaccettabile”, ha dichiarato il ministro dello Sviluppo economico Calenda, pensando molto probabilmente ad un intervento al decreto fiscale o nella legge di Bilancio. L’Asstel, l’associazione che riunisce gli operatori di telecomunicazioni ha a sua volta difeso le scelte fatte dai diversi operatori, spiegando che si tratta di offerte commerciali liberamente proposte sul mercato. Gli operatori di telefonia non solo non hanno rispettato quanto richiesto, già nel mese di marzo, dall’Agcom (costringendo così l’Autorità per le telecomunicazioni a minacciare sanzioni per oltre un milione di euro), ossia la fatturazione ogni trenta giorni, ma hanno fatto ricorso al Tar che sarà discusso a febbraio.

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