Africa, zona strategica per gli USA

L’attacco che ha colpito alcuni sodati americani in Niger all’inizio di Ottobre, mette in risalto la sempre più importante presenza dell’esercito americano in Africa, orientamento strategico intrapreso da Barack Obama per arginare la crescita del terrorismo sul continente.

Lo scorso 4 Ottobre, dodici sodati americani e trenta militari nigerini tornano da una missione compiuta a nord di Niamey, capitale del Niger. Cadono in un’imboscata compiuta da una cinquantina di uomini armati vicino al villaggio di Tongo Tongo, nella regione di Tillaberi, dove cercano un tenente del capo del sedicente Stato Islamico nel Grande Sahara. Quattro berretti verdi americani e cinque sodati nigerini rimangono uccisi. L’evento, che ha fatto molto rumore negli Stati Uniti, soprattutto per il mistero che avvolge i fatti (l’attacco non è mai stato rivendicato), e per la reazione alquanto maldestra del Presidente Trump, mostra la presenza effettiva di forze armate americane nel Sahel.

Il Niger, dove al momento dell’attacco erano di stanza 800 soldati, è la testa di ponte dell’Africom, comando delle operazioni militari americane in Africa, in Africa orientale. Vi opera dal 2013, principalmente contro Boko Haram e i gruppi jihadisti che si raggruppano nella regione, a viso scoperto per la formazione di forze armate locali, e a viso coperto per le missioni di contro-terrorismo, solitamente condotte dalle Forze speciali (tra le quali troviamo i beretti verdi) e i droni. L’Africom sta peraltro costruendo ad Agadez un’importante base di lancio per i droni. La presenza dell’Africa cresce negli interessi americani, collegata ad una valutazione al rialzo della minaccia terrorista che arriva dal continente. Secondo quanto si legge nel blog della storica americana Maya Kandel, specialista di politica estera e di difesa americana, dove cita le azioni di Boko Haram in Nigeria, degli Shebab in Somalia e Al-Qaeda in Mali, la vera svolta è avvenuta subito dopo l’attacco del Settembre 2012 al consolato americano di Benghazi, perpetrato da gruppi terroristi e che ha portato all’assassinio dell’Ambasciatore americano in Libia.

Anche se il Continente è quasi in coda della lista degli interessi strategici americani, lo sguardo del pentagono vi si è considerevolmente concentrato con la crescita del terrorismo nella regione. Barack Obama, con la sua politica della “light footprint” (che punta sulla sorveglianza e l’utilizzo di droni e forze speciali), ha soprattutto contribuito a fare dell’Africa  un ospite di primo piano per una parte importante del contingente di forze speciali americane, secondo solo a quello presente in Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno 6000 uomini dispiegati sul Continente africano, la maggior parte di stanza a Djibuti. Secondo i numeri ufficiali, 1300 di loro fanno parte delle forze spciali. Oltre al Sahel, dove Washington da anche un supporto logistico ai francesi del contingente Barkhane, l’esercito americano forma l’esercito nigerino contro Boko Haram, conduce azioni con i droni in Libia e ha lottato per diversi anni contro l’Esercito di Resistenza del Signore (LRA) in Africa centrale al fianco delle forze ugandesi. Senza contare la moltitudine di operazioni fantasma, come quella che è costata la vita ad un sodato americano, lo scorso Maggio, in Somalia.

Fino ad oggi, la presenza americana in Africa è stata ben accolta dai locali, perché si limita, ufficialmente, a missioni di consiglio in materia di difesa e all’assistenza degli eserciti ufficiali. L’obbiettivo di queste operazioni militari e di portare soluzioni africane a problemi africani, ossia sviluppare le competenze locali per far fronte alle minacce securitarie. Ma la perdita di potenza dell’Isis in Medio Oriente, abbinata alla presenza di Donald Trump alla Casa Bianca, fanno si che le carte in tavola stiano cambiando. “La guerra si sta spostando. Assisteremo a più azioni in Africa”, dichiarava il senatore repubblicano Lindsey Graham, all’uscita di un incontro con il Ministro della Difesa americano Jim Mattis, il 20 Ottobre. “L’Africa è uno dei luoghi dove sappiamo che [l’Isis] spera rafforzare la sua presenza (…) sappiamo fino a che punto la Libia e il Sinai siano importanti per l’Isis. Sappiamo quanto abbiano provato a stabilirsi in Africa Orientale e,  ora, in Africa Occidentale”, ha sottolineato il generale Joe Dunford, Capo di Stato Maggiore americano, riferendosi all’imboscata avvenuta in Niger.

Negli Stati Uniti gli osservatori cominciano a preoccuparsi per la strategia (o meglio per l’assenza di strategia) attuata dal successore di Barack Obama. In questi ultimi nove mesi, l’Amministrazione Trump sembra non avere la minima idea di ciò che avviene in Africa, compresa la diplomazia spicciola”, fustiga l’editorialista del Washington Post Karen Attiah. Ne abbiamo diversi esempi, come l’annullamento all’ultimo secondo dell’incontro previsto tra il Segretario di Stato Rex Tillerson e il Presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Kaki, cosa che ha reso furioso il diplomatico ciadiano, o, più recentemente, il “travel ban” imposto ai cittadini del Ciad, seppure alleato degli americani nella lotta contro Boko Haram. O ancora il fatto che non ci sia ancora un responsabile del Bureau per gli affari africani alla Segreteria di Stato.

Per William Assanovo, coordinatore regionale dell’Institute for Security Studies, citato da Quartz Africa, un’evoluzione più offensiva della presenza americana in Africa potrebbe, “se non  fosse correttamente pensata e attuata, contribuire a far precipitare la situazione sul terreno. Renderebbe la popolazione ostile a queste forze e andrebbe a rafforzare i ranghi dei gruppi estremisti”. All’inizio del suo mandato Donald Trump ha subito fatto capire che l’Africa era l’ultimo dei suoi pensieri, se non per farvi business e lottare (pesantemente) contro il terrorismo. Se questo lo ha reso piuttosto “popolare” tra i diversi dittatori ancora saldamente in sella, sicuramente  non può fare proseliti tra i loro cittadini. L’aiuto allo sviluppo e la supervisione strategica non sono dettagli da poco nella visione d’insieme della politica estera di una grande potenza.

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