L’Italia nel pallone, molto più di un dramma sportivo

Panem et circenses: l’antica formula dei governanti, per tenere a bada il popolo e distrarlo dalla misera realtà quotidiana, non troverà questa volta applicazione. Già prima era scarsa la pagnotta, si aggiunga ora anche l’esaurimento dell’anestetico ludico sportivo, che poteva lenire provvisoriamente le nostre sofferenze.

Si aggira una nube cupa sul Belpaese, martoriato in ogni settore da una profonda e perdurante crisi dei valori etici, della politica e dell’economia. La frustrazione nel constatare l’inadeguatezza di chi dovrebbe fornire soluzioni e, invece, irresponsabilmente, per campanilismi e questioni di cortile o di ego, complica ancor di più le cose, è dilagante; l’insoddisfazione della gente nelle grandi e piccole città, alle prese con l’assenza delle Istituzioni e rintanata in periferie invivibili, dove regnano la delinquenza diffusa, i monti d’immondizia non ritirata, i servizi inesistenti, è evidente; le pene fisiologiche e psicologiche delle vittime di terremoti e calamità naturali, che hanno perso familiari e casa nei vecchi borghi dell’Italia centrale e vivono tuttora in container, sono inaccettabili.

Ma, per non farci mancare proprio nulla, non potevamo non subire l’ennesima violenza. Sì, perché, poche sere fa, si è consumato un autentico dramma collettivo: l’eliminazione della Nazionale di calcio dalla partecipazione ai Mondiali 2018 di Russia. Non succedeva dal 1958. Potrebbe suonare ridicolo, a fronte delle problematiche di ben altro ordine appena elencate. Ma, non è così. Non in Italia. Nessuno può impunemente fracassare il mandolino, né sputare in un piatto di spaghetti, senza rendersi reo di insultare l’italianità. Guai a chi sdogana l’offesa, asserendo che siano solo banali luoghi comuni. Per noi, è come se ci avessero bruciato il tricolore in piazza. E, dopo il mandolino e gli spaghetti, viene naturalmente la maglia azzurra di calcio. L’unica gioia, forse effimera quanto vi pare, ma istintiva, genuina, anche belluina, e certamente liberatoria, ci è stata sottratta. Un’onta insopportabile, una macchia che si spande oltre la squadra, oltre il movimento, che imbratta una tradizione di una scuola pedatoria costruita nel tempo con quattro stelle mondiali cucite sul petto di ogni italiano e uccide uno degli ultimi potenziali motivi d’orgoglio nazionale, capace di farci sentire per un momento ancora un unicum, nonostante si passi la vita a criticare il sistema-Paese. Sembrerà un discorso esagerato, abnormemente enfatizzato, perfino idiota, ma le passioni sono fatte così, irrazionali e insensate. Un individuo senza passioni è un qualcosa che non vibra, un guscio vuoto, intelligente forse, ma non senziente. Chi non può di suo, s’aggrappa sempre alle gesta di qualcun altro più fortunato, ci s’immedesima, ne vive i trionfi come fossero i propri e, per un attimo, è felice e appagato.

Lo sa questo, quel grande atleta che è Gigi Buffon, talentuoso numero uno, realizzato professionalmente ed economicamente, con una carriera in dirittura d’arrivo piena di successi senza pari, che ha fallito con i suoi compagni un obiettivo ritenuto importante, essenziale, non solo per sé, ma soprattutto per quell’Italia bistrattata, che all’estero conta come il due di coppe quando regna bastoni e che non ha più sovranità nemmeno sull’aria che respira. Lo sa Gigi, che avrebbe potuto fare spallucce, tanto era l’ultima partita fra i pali degli azzurri e non deve più dimostrare niente a nessuno; lo sa, che dietro alla squadra c’era un’intera popolazione depressa, a cui regalare un piccolo grande momento di felicità e di coesione sociale, a cui restituire quel senso d’identità nazionale, logorato negli anni dalle faziose e divisorie diatribe politiche, giocate senza scrupoli sulla pelle ormai scorticata dei cittadini. Lo sa perfettamente, Gigi, e ce lo ha raccontato fra le lacrime, nell’intervista post match, manco fosse un ventenne, senza vergogna, ma addolorato per non essere riuscito. Ha chiesto scusa alla gente, da campione vero in campo e fuori, da leader, da nonno per i suoi colleghi più giovani, da paladino dei settantamila di San Siro che, a parte qualche fischio all’inno svedese, sono stati la benzina di una Nazionale che ha arrembato indiavolata fino all’ultimo secondo, con poca fortuna, con le idee confuse, ma con onore, seppur tardivo. Ci ha messo la faccia, lui. Altri non l’hanno fatto.

Le polemiche dureranno un pò: restano lo smacco, l’impressione di attraversare una fase oscurantista del calcio nostrano e la cospicua perdita da mancato introito in termini di sponsorizzazioni, diritti televisivi e ingaggi. Poi, altri eventi più autorevoli prenderanno il sopravvento. I vertici della Figc elaboreranno strategie per non schiodare il sedere dalla poltrona; il povero, ma non incolpevole, Commissario Tecnico Ventura è l’agnello sacrificale, il parafulmine per tutti i gattopardi altolocati che declameranno una svolta radicale di gestione, senza voler realmente cambiare una virgola. Signori, ecco a voi l’Italia di oggi nel mondo dello sport, fedele inquietante riflesso di tutto ciò che esiste al di fuori di esso e che si colloca deliberatamente a distanze siderali dalla benché minima parvenza di competenza, meritocrazia e capacità di leggere i tempi in cui viviamo. In questo, Tomasi di Lampedusa è stato profeta, riproducendo le magagne di una classe dirigente sempre uguale a sé stessa e conforme ai suoi vizi peggiori. Non è l’esempio che ci aspettiamo. Chi non raggiunge risultati e distrugge, deve mettere la testa sul ceppo. In Italia, il calcio e la maglia azzurra sono cose prese molto sul serio dalla gente comune, che da quel colore e da chi lo indossa si sente molto più rappresentata.

Snobbare e minimizzare questo flop sportivo, esortando – con piglio radical chic  e pseudo intellettuale – ad occuparsi solo delle questioni che contano, significa non comprendere la metafora calcistica, né capire il Paese in cui si vive. E il rigurgito lo rivivremo presto, alle soglia della prossima estate, quando al Mondiale di Russia il silenzio per l’assenza dell’inno nazionale sarà assordante.

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