Il voto all’estero

Ci sarebbero tante cose da commentare, questa settimana, ma per una volta dimentichiamo l’attualità, francamente poco allegra (persino la Nazionale azzurra ci ha fatto soffrire!), e pensiamo a un tema, per così dire, intemporale: il voto all’estero.

Un passo indietro: la Legge costituzionale che accordava il diritto di voto ai cittadini residenti all’estero fu approvata all’inizio del millennio, dopo un lunghissimo e tormentatissimo percorso. La spingeva con tutte le sue forze Mirko Tremaglia, un galantuomo, deputato del MSI e poi di AN, che fu anche Ministro per gli Italiani nel Mondo. Al di là della riparazione di un torto storico, Tremaglia pensava forse che il voto all’estero avrebbe favorito la destra (così non fu, però). Gli altri partiti, a loro volta, temevano l’effetto destabilizzante che milioni di voti di cui era imprevedibile l’orientamento, riversati sui tradizionali collegi, potevano avere sugli (allora consolidati) equilibri italiani. Alla fine, quando non si poté più fare a meno di approvarlo, il voto fu, per così dire, sterilizzato: i residenti all’estero non votavano per i collegi di origine, ma per un unico collegio, ripartito a sua volta in cinque aeree. Ed eleggevano solo 6 senatori e 12 deputati. Se si considera che i  cittadini all’estero sono circa 4,5 milioni, per rispettare le proporzioni con i cittadini in Italia, i deputati avrebbero dovuto essere più di quaranta e i senatori una ventina. Ma non importa. Si voleva che gli eletti all’estero avessero un ruolo di testimonianza, non influente sugli equilibri parlamentari italiani e così è stato, salvo che per i due anni dell’ultimo Governo Prodi, in cui due senatori eletti all’estero furono decisivi.

Sull’impostazione del voto all’estero ci sarebbero moltissime cose da dire (e da criticare). Io stesso, essendo stato candidato in America del Sud nel 2006, ho pagato in carne propria le incredibili e assurde difficoltà della cosa, il costo (e la pratica impossibilità) di fare campagna in un territorio sconfinato, il prevalere dei gruppi organizzati in associazioni di vario tipo, peggio, delle piccole mafie locali. Ma un aspetto buono la Legge l’aveva: potevano candidarsi solo i cittadini residenti all’estero e quindi debitamente iscritti nei rispettivi registri consolari e nell’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero). Ciò serviva a evitare le incursioni dai confini di esponenti politici italiani che poco o nulla sapevano dei problemi di chi vive all’estero e restituiva alle rappresentanze locali almeno un certo diritto di scelta.

La nuova legge elettorale, tra il lusco e il brusco, ha cambiato questa norma. Ora all’estero possono candidarsi anche cittadini residenti in patria. Perché lo si è fatto? È circolata la voce che si trattasse di una di quelle norme che si definiscono “con fotografia”, fatta per beneficiare qualcuno specifico, e in concreto il senatore Verdini,  verso cui Governo e PD hanno un grosso debito, e che ben difficilmente avrà un collegio in Italia. Si dice che si presenterebbe in Brasile (lui lo ha smentito). Verdini o un altro, la norma certamente è pensata in beneficio di qualcuno. Comunque sia, si è fatto ai residenti all’estero un altro, spiacevole sgarbo.

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  • Condivido quanto scrive Jannuzzi. Aggiungo che pur avendo un ruolo testimoniale, nelle intenzioni di Tremaglia il voto all’estero doveva servire per portare nel Parlamento italiano personalità che, oltre a conoscere le comunità, apportassero esperienze e conoscenze dei paesi che li avevano accolto, e che arricchissero i dibattiti e favorissero nuove relazioni con “l’altra Italia” e con i paesi di residenza. Non è stato così e non solo per le inadempienze delle comunità all’estero, ma perché la politica italiana sembra non ha capito ancora cosa sono e quali potenzialità hanno le comunità italiane all’estero.

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