Meteo e clima, i tweet di Trump

Il 29 dicembre, Trump ha scritto su Twitter: “Sulla Costa Orientale degli Stati Uniti sarà il Capodanno più freddo che si ricordi, Potremmo magari usare un po’ di quel buon vecchio Riscaldamento Globale per proteggersi dal quale il nostro Paese, e non altri, sta pagando migliaia di miliardi di dollari”.

Scritta dall’uomo che ha definito il ‘riscaldamento globale’ un’invenzione dei Cinesi per distruggere il lavoro negli Stati Uniti, e che ha fatto uscire gli Usa dall’accordo di Parigi, la battuta non stupisce, e potrebbe lasciare indifferenti. Ma il tweet di Trump è stato subito ripreso dai media internazionali, fra i primi CNN e The Guardian, ed ha ha provocato decine di migliaia di risposte. Definito dai compatrioti Democratici ‘un tweet che sembra scritto da un bambino che odia l’ora di scienze’, proprio dagli scienziati – in primo luogo metereologi e climatologi – sono arrivate al tweet di Trump le risposte più puntuali. Fra i primi ad intervenire, Anthony Leiserowitz, direttore del progetto sulla comunicazione sul cambiamento climatico della Yale University, Matthew England, climatologo dell’Università del Galles del Sud, David Caroly, climatologo dell’Università di Melbourne. In particolare Leiserowitz, che lavora tra scienza e comunicazione, ha stigmatizzato l’uso dei social media da parte di Trump, ed ha definito il tweet “scientificamente ridicolo e dimostrabilmente falso”, perché “c’è una fondamentale differenza in scala fra quello che è il tempo meteorologico e quello che è il clima”.

Il fatto è che siamo in tempi di grande allarme per il dilagare delle ‘fake news’. Un allarme determinato da due fattori: il primo, l’invasione del mondo della comunicazione da parte di notizie ‘false’. Il secondo, troppe volte trascurato ma probabilmente più importante, l’atteggiamento del ‘pubblico’: un pubblico che spesso non solo è culturalmente disarmato di fronte alle false notizie, ma molte volte è addirittura disinteressato ai dati reali – come dimostrato dagli studi sulla percezione delle statistiche sintetizzati in un preoccupato articolo sempre del The Guardian del 19 gennaio 2017. Un pubblico che al contrario è affamato di sensazioni ed emozioni. Un pubblico che non è spinto all’analisi e alla critica delle notizie perché sul web fatto di immagini la critica argomentata è superata da battute e like, ma soprattutto per via di una geniale trovata degli artefici del web: il fatto che al pubblico è offerta la possibilità di essere complice del caos informativo dalla solleticante possibilità di ‘pubblicare’ esso stesso, e con ciò viene disarmato il possibile atteggiamento critico rispetto alle informazioni. Accade però che il bombardamento di news, di immagini e di messaggi a cui tutti sono sottoposti – e che tutti subiscono-collaborando – ‘affama’ le menti di sintesi capaci di fare ordine nel caos informazionale. A questo ‘bisogno intellettuale’ – bisogno di ordine, di sintesi – risponde assai bene la sintesi – semantica, superficiale, non scientifica – su cui è costruita ogni battuta umoristica. Per questo alle battute fanno ricorso tanti personaggi pubblici, politici e non solo.

Ecco perché l’uscita di Trump sul ‘global change’ non è passata come una semplice battuta, ma come qualcosa di molto serio, e gli scienziati si sono accaniti sulla a-scientifica sintesi – nella battuta di Trump – fra tempo meteorologico e clima. Non perché le due cose non abbiano a che fare fra di loro: Adam Smith, climatologo del National Oceanic and Athmospheric Administration (NOAA) ha detto per esempio che “il cambiamento climatico gioca un ruolo nell’amplificare la frequenza e l’intensità di alcuni tipi di fenomeni meteorologici estremi”. Ma perché con-fonderle e scherzarci sopra ridicolizza l’aspetto scientifico della questione, aprendo il campo delle possibilità a soluzioni non fondate sulla scienza ma su un consenso disinformato e acritico. Il caso della battuta di Trump ha messo in luce ancora una volta un enorme problema sociale della ‘società della comunicazione’, quello della responsabilità dei produttori di informazione nei confronti dei ricettori, del pubblico. Una responsabilità che è tanto più grande quanto più grande è il ruolo del produttore del messaggio.

I Romani dicevano: “Quod licet Jovi, non licet bovi”, quel che è consentito a Giove non è consentito al bue. Nella società dell’informazione, in cui tutti ‘pubblicano’ ma qualcuno lo fa dall’alto di un ruolo più importante, dobbiamo intenderlo così: “Quod licet bovi, non licet Jovi”.

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[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]

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