Caso Cappato tra Legge e coscienza
Le conclusioni pronunciate dalla pubblica accusa nel Tribunale di Milano, dove è stata chiesta l’assoluzione per Marco Cappato dall’accusa di istigazione o aiuto al suicidio pone non pochi interrogativi a cui non è semplice dare risposta. Da un lato, infatti, si pongono problemi di natura etica, religiosa e filosofica sia sulla sostanza di alcune norme nonché sulla loro attualità. Dall’altro lato ci troviamo di fronte a un ufficio della Magistratura, quello del Pubblico Ministero, che prima ha chiesto il rinvio a giudizio di Cappato e, adesso, chiede l’assoluzione. Peraltro, in questo caso, il processo è stato imposto dal Giudice per le indagini preliminari che aveva respinto la richiesta di archiviazione della vicenda avanzata dagli stessi Pubblici Ministeri che hanno chiesto l’assoluzione. La Magistratura, organismo unico, ha già dato due diverse valutazioni. E ha creato un problema non da poco.
Spetterà al Tribunale decidere se il comportamento di Cappato, e forse non solo il suo, possa configurare il reato di cui all’articolo 580 del Codice Penale (Istigazione o aiuto al suicidio) in una situazione dove si intrecciano questioni quali il termine della vita, l’accanimento terapeutico, il rispetto della volontà del singolo oltre a tematiche religiose e filosofiche. Il problema sostanziale è quello dell’applicazione di leggi che stridono fortemente con altre norme non scritte e che hanno una valenza che varia per ogni essere umano.
La legge deve essere comunque applicata in quanto legge, come diceva Spencer Tracey nel film “La costola di Adamo”, oppure esistono limiti come quelli che possono portare all’obiezione di coscienza? Se esiste l’obiezione di coscienza per i medici che decidono di non praticare aborti, astrattamente non è impensabile la possibilità di concederla a magistrati che trovino ripugnante per la loro coscienza perseguire un reato almeno in determinate circostanze.
Nessun dubbio in questo caso sulla validità e esigenza della norma. Inammissibile pensare di cancellarla a fronte anche delle notizie di suicidi di giovani a causa di bullismo e, oggi, anche di cyberbullismo. Diverso sicuramente il contesto di applicazione in casi, anche dal pesante impatto mediatico, come quello di DJ Fabo, quello di Piergiorgio Welby o Eluana Englaro.
Devono essere avanzate alcune considerazioni di natura apparentemente solo giuridica ma così non è. In primo luogo non dobbiamo dimenticare che il Codice Penale è in vigore dal 1930, ed è stato scritto da giuristi di altissimo livello quali non solo Alfredo Rocco, di cui porta il nome pur avendo subìto notevoli cambiamenti, ma anche Vincenzo Manzini, ed è frutto delle teorie del positivismo e non quelle di matrice lombrosiana. Pur ancora in vigore il codice è sostanzialmente cambiato e sono stati inseriti reati quali lo stalking e l’omicidio stradale e abrogati, tra gli altri, il duello e l’accattonaggio.
Tutto ciò è dipeso non solo dal cambiamento della società ma anche dall’entrata in vigore della Costituzione nel 1948. E l’inserimento tra i principi fondamentali dei diritti dell’uomo, ha ampliato il dibattito. Lo stesso Pubblico Ministero di Milano, nella sua richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste, ha parlato di autodeterminazione, di dignità umana, di libertà personali: tutti principi alla base della società moderna e democratica.
La discussione potrebbe andare avanti all’infinito ma, dal punto di vista semplicemente tecnico e processuale, vale a dire la fredda e sterile applicazione della norma di legge, ci dobbiamo chiedere se e in che misura il contestato comportamento di Marco Cappato abbia contribuito alla morte di DJ Fabo, vale a dire se siano ravvisabili nella sua condotta elementi che possano in concreto aver rafforzato o determinato una volontà suicida o se ne abbia agevolato l’esecuzione. Le conclusioni della pubblica accusa sembra lo escludano, in quanto hanno chiesto l’assoluzione per l’imputato non con la formula “il fatto non costituisce reato” fornendo così un’interpretazione che aprirebbe la strada forse anche a pericolose derive. La richiesta di assoluzione è stata avanzata perché “il fatto non sussiste”, vale a dire perché nella condotta di Cappato non sono stati ravvisati gli elementi costitutivi del reato.
Aspettiamo la sentenza lasciando aperto un dibattito infinito.
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