Una campagna violenta

La campagna elettorale che stiamo vivendo è una delle più violente degli ultimi decenni, tanto da ricordare, per l’asprezza dei toni, quelle del primo dopoguerra, quando il confronto est-ovest, DC-PCI e rispettivi alleati, arrivava spesso alle vie di fatto. Allora, tuttavia, c’era una contesa ideologica e geostrategica evidente e decisiva. Questo non sembra esistere oggi, quando nessun partito responsabile si dice antidemocratico, statalista od antioccidentale e tra i programmi dei partiti regna una completa confusione (i 5 Stelle, in particolare, nessuno sa cosa siano, a parte il braccio politico della Casaleggio e Associati).

Eppure, una contrapposizione violenta esiste. Un dirigente di Forza Nuova picchiato a sangue, un attivista di Potere al Popolo aggredito, qua e là scontri tra i centri sociali e CasaPuond. Verrebbero in mente tempi lontani, più lontani ancora del secondo dopoguerra, i terribili anni tra il 1918 e il 1921, se non fosse che la tragedia di allora si è mutata in qualcosa di molto vicino alla farsa, e a scendere in piazza con bastioni e catene, a destra e a sinistra, sono in realtà piccoli gruppi, minoranze poco credibili, anche se fastidiose e spesso dannose, che si autocontemplano e si autoesaltano, con scarso rapporto con la società (basta vedere i sondaggi, che danno CasaPound al di sotto dell’1% e Potere al Popolo – la vecchia Rifondazione Comunista – al di sotto di un LeU, pur insignificante). La questione è però di sapere se queste minoranze sono del tutto e solo autoreferenziali.

Così non si può dire onestamente che sia. Le azioni del neosquadrismo forzanovista trovano, se non esplicito appoggio, certo tacita comprensione in una parte abbastanza larga della destra rispettabile, e neppur i moderati, da Berlusconi in giù, prendono veramente le distanze in modo netto e inequivoco. A sinistra, il frammentato arcipelago che fa capo alle formazioni uscite dal PD non occulta una viscerale “solidarietà antifascista” che alla fine giustifica ogni eccesso (parlando dell’esponente di Forza Nuova picchiato a sangue, da sinistra si è commentato: “se lo era cercato”; e gli slogan di Palermo antifascista, nuova Resistenza etc. la dicono lunga.)

In mezzo, il mondo amorfo dei grillini, che non prendono posizione (è naturale, nel loro seno c’è di tutto) e oggi lanciano proclami rivoluzionari e domani si presentano come una  garanzia, anzi la sola garanzia, di stabilità e buon senso per il futuro del Paese.

A gettare un pochino di benzina sul fuoco ci si è messo anche il Presidente della Commissione Europea, Juncker, sollevando un virtuoso coro di indignazioni. Intendiamoci, però, non è che abbia espresso valutazioni indebite su questa o quella nostra forza politica, ha solo detto una cosa evidente: che si rischia di avere un governo inoperante, che è la preoccupazione che ogni politologo manifesta un giorno sì e un giorno no. Ma Juncker non è un politologo qualsiasi, è il Presidente dell’esecutivo dell’UE, e queste cose è meglio che se le tenga per sé. Per discrezione, rispetto degli affari interni dei Paesi membri e anche buon senso: queste dichiarazioni non servono certo a cambiare le cose, ma solo a creare irritazione e a sollevare l’ipocrisia sciovinista, ma al passaggio fanno danno nei Mercati. Juncker ha dunque fatto male ad aprire la bocca e infatti ha subito dovuto correggersi.  Ma i timori che ha inopportunamente espressi restano e nessuno dei proclami elettorali (e soprattutto la fiera ripulsa da ogni parte a una “grande coalizione”) può dissiparli. E neppure la certezza di una maggioranza autosufficiente di centro-destra, sbandierata da tutti i suoi esponenti, da Berlusconi a Fitto, suona del tutto convincente.

Il Presidente del Consiglio ha fatto per parte sua il suo mestiere quando ha risposto a Juncker che non ci sarà un salto nel buio, che “i governi governano”. Da persona seria qual è, non ha detto: vinceremo noi e il PD assicurerà la governabilità. Ha riconosciuto che in democrazia chi avrà la maggioranza in Parlamento (se maggioranza ci sarà) ha il diritto-dovere di governare e ne avrà i mezzi. Doveva dirlo, per dignità e anche per evitare panico nei Mercati. Purtroppo, la sua è forse la sola voce sensata che si leva nella cacofonia dei proclami, e lui è l’unico che cerca di stendere un po’ di balsamo lenitivo sulle nostre ferite.

Giorgio Napolitano, dopo Romano Prodi, ha perciò con ragione indicato in Gentiloni la garanzia per una futuro stabile e sereno. È un endorsement importante, ma tardivo e insufficiente, un sostegno decisivo poteva darlo a Gentiloni, al momento opportuno, solo Matteo Renzi, e non l’ha fatto. E chi volete che ascolti ora l’ex-Presidente della Repubblica nella rissa da pollaio della sinistra estrema? Davvero Bersani e soci faranno propria la lezioni del vecchio saggio? Come ha detto l’insopportabile D’Alema di Prodi, anche Napolitano deve essere  “un compagno che sbaglia”.

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