Economia Italia, intervista a Carlo Cottarelli
Dopo la laurea in Scienze Economiche e Bancarie all’Università di Siena e il Master in Economics presso la London School of Economics, Carlo Cottarelli ha lavorato dal 1981 al 1987 presso la direzione monetaria del Servizio Studi della Banca d’Italia e dal 1987 al 1988 al Servizio Studi dell’ENI. Direttore Esecutivo al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per Italia, Albania, Grecia, Malta, Portogallo e San Marino da novembre 2014 a ottobre 2017. Da ottobre 2013 a ottobre 2014 è stato Commissario per la Revisione della Spesa Pubblica in Italia e dal 2008 al 2013 Direttore del Fiscal Affairs Department del Fondo Monetario Internazionale. Attualmente, oltre ad essere Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore è Visiting Professor durante il secondo semestre dell’a.a. 2017/2018 presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi. Abbiamo incontrato Carlo Cottarelli in occasione di un’intervista rilasciata alla nostra Testata.
Una delle argomentazioni che si sentono più spesso dire è che gli economisti hanno fallito non prevedendo la crisi del 2009.
Certo, gli economisti non sono bravi a prevedere le crisi, ma c’è stato chi nella scorsa decade, avvertì che c’era qualcosa di strano notando come il debito delle famiglie americane si stesse accumulando molto rapidamente. All’interno del Fondo Monetario c’erano economisti come me ed altri, che i prestiti concessi a tassi di interesse molto bassi stavano creando squilibri e si era in presenza di un debito delle famiglie americane che stava crescendo troppo rapidamente. La crisi del 2008-2009 fu dovuta ad un subprime market, furono dati soldi alle famiglie americane in maniera tale da distribuirli anche a chi poi non sarebbe poi stato in grado di restituirli. Quei tassi di interesse così bassi avevano creato una bolla speculativa, la domanda è se anche adesso non siamo in presenza di una situazione simile; ho fatto notare più volte come questo pericolo sia reale, speriamo che non avvenga un’altra crisi.
La troika europea, in cui è presente il FMI con BCE e Commissione, nel sentire comune è stata percepita come un qualcosa di negativo, cui si sono addossate molte colpe, forse impropriamente. Frutto di errori fatti nel gestire la crisi greca in particolare o anche mancanza di comunicazione all’esterno.
La Grecia è fallita tecnicamente, ha dovuto fare la ristrutturazione del debito nel 2011. Il paese aveva una situazione oggettivamente insostenibile, spendeva molto più di quanto incassava in termini di rapporti con l’estero, con un deficit al 10% del pil nelle partite correnti. Lo stato greco aveva un deficit molto elevato che nascondeva nelle statistiche ufficiali, c’era la necessità di ridurre la spesa da parte dei greci che allora vivevano ben al di sopra delle loro possibilità. Detto questo, credo che la crisi greca sia stata resa più profonda anche da errori della comunità internazionale all’inizio della stessa, quando si prestavano fondi alla Grecia a tassi di interesse punitivi. In particolare gli europei erogavano prestiti a tassi talmente elevati da rendere il programma internamente difficile da sostenere. Oltre a questo Francia e Germania hanno fatto, secondo me, un errore clamoroso quando pochi mesi dopo, con la dichiarazione di Deauville fatta dalla Merkel e da Sarkozy, affermarono che la ristrutturazione del debito di un paese dell’eurozona non era più considerato un tabù. Questo ha portato a pensare che ci sarebbe stata una ristrutturazione del debito greco ed altri paesi in situazioni simili, facendo crollare la possibilità di funzionamento del primo programma di salvataggio ed aggravando la crisi greca. Poi gli europei hanno capito che se si voleva sostenere la Grecia si dovevano dare prestiti a tassi di interesse più bassi, si è fatta la ristrutturazione del debito, che però non ha avuto effetti decisivi sull’economia greca. Poi ci sono ci sono voluti anni per arrivare ad una ripresa. Ora si è ricominciato a parlare dell’insostenibilità del debito greco, ma adesso che i debiti ellenici sono detenuti dai governi europei, questi dichiarano che il debito del paese è sostenibile, così come in effetti credo sia.
Lei ha affrontato il discorso del debito varie volte, anche nel Fiscal Monitor 2017 presentato in Nomisma aveva puntato il focus sulla massa del debito mondiale ed italiano. In questo anno trascorso ha visto segnali sulla strada della riduzione dello stesso?
Il debito italiano si è stabilizzato rispetto al pil, adesso vedremo i dati Istat che forse ci restituiranno una riduzione nel 2017. Ma bisogna tenere conto che le riserve di tesoreria del governo italiano sono state portate al livello più basso dal 2011, fondamentalmente si sono usate le riserve di cassa per ridurre il debito.
Stando ai dati diffusi, nell’ultima legislatura abbiamo avuto un aumento del debito di 10 miliardi di euro al mese.
Bisogna guardare il dato in rapporto al pil, fino a che c’è un deficit il debito aumenta, su questo non c’è dubbio. E’ da valutare il debito rispetto all’economia, questo si è stabilizzato rispetto al pil e si è ridotto rispetto alla dimensione dell’economia. Continua ad aumentare perché siamo ancora in deficit.
Alcune parti politiche sostengono che per risolvere il problema del debito basterebbe uscire dall’euro, tornare alla moneta sovrana e stamparne tutta quella che serve, lei cosa ne pensa?
Ritengo che sarebbe un errore, un salto nel buio, costringerebbe l’Italia a dare credibilità alla nuova propria moneta, quindi evitare che la gente cerchi di liberarsene per acquistare euro. Sarebbero necessarie politiche restrittive molto più aggressive di quelle necessarie per restare nell’area dell’euro. Ci troveremmo di fronte ad un aumento molto forte dei tassi d’interesse, a meno che non si decidesse di seguire la strada della completa monetizzazione del debito. In questo caso il debito sicuramente si ridurrebbe rispetto al pil, ma questo perché ci sarebbe una fiammata inflazionistica, tutto questo viene interamente sottovalutato. Vorrei essere molto chiaro, il problema di dare credibilità alla nuova moneta viene completamente sottovalutato dai sovranisti che vorrebbero creare questa nuova moneta.
Il suo pensiero sulla brexit? Ne parlavamo qualche giorno fa con il Presidente Tajani alla Johns Hopkins, questa è stata una eventualità prevista dai trattati, ma che si pensava non sarebbe mai successa, tanto è vero che non esiste un percorso definito.
Ora anche il Regno Unito ammette che i prossimi anni non saranno facili, l’Europa è molto più grande della Gran Bretagna ovviamente, questo comporterà che se ci sarà un costo, questo sarà molto inferiore a quello che dovranno sostenere gli inglesi per uscire dalla UE. Sarebbe stato meglio che i britannici fossero rimasti nell’Unione, ma molto più per loro che per l’Unione direi.
Oltre che Direttore Esecutivo del FMI è stato nominato dal governo Letta, Commissario alla spending review, era un periodo in cui si parlava molto di tagli lineari. Poi arrivò il governo Renzi che ebbe a dichiarare “Cottarelli ha un compito datogli dal governo Letta di fare una revisione della spesa, se facesse anche delle proposte io sarei contento!”, poco dopo l’incarico ebbe poi termine.
Il mio lavoro fu proprio indirizzato a trovare misure che evitassero tagli lineari ed andassero ad individuare punti precisi ove intervenire chirurgicamente. Nel documento riassuntivo che preparai e pubblicai, facilmente consultabile, ci sono ben 33 proposte che proposi di adottare. Nei tre mesi trascorsi come Commissario nel periodo Renzi feci un lavoro propedeutico che si doveva poi portare avanti, avanzai la proposta di andare a creare gruppi di lavoro per definire meglio le proposte; la cosa andò poi come si sa.
I costi della burocrazia amministrativa, la Nomenklatura come la chiamò il dott. Panara, ma anche il Presidente Prodi in Johns Hopkins valutò in un aumento del 4% del pil l’abolizione dei TAR. Al di là del numero percentuale, la sua opinione in merito come esperto di spending review?
Nel mio nuovo libro ‘I 7 peccati capitali dell’economia italiana’, il terzo capitolo è proprio dedicato alla burocrazia. Il capitolo quattro è invece incentrato sulla lentezza della giustizia. E’ molto difficile quantificare quanto queste cose pesino sull’economia italiana, ma se si va a vedere il parere degli imprenditori ed il perché non decidono di investire in Italia, la burocrazia e la lentezza della giustizia sono ai primi posti.
Ora ci troviamo in campagna elettorale e le promesse, dalla cancellazione della legge Fornero in giù, si sprecano, quanto ci può essere di reale in queste promesse alla luce dei costi che ne deriverebbero?
Qualcosa di quello che viene promesso dovrà essere fatto, se il centro-destra andasse al governo non credo potrebbero evitare di rivedere la legge Fornero o introdurre una forma di flat-tax o che tenda a questo. A me in realtà preoccupa non che le promesse non vengano realizzate, ma che stavolta lo siano, perché c’è un problema di tenuta dei conti pubblici non indifferente.
Tempo fa, il governatore Draghi affermò che per rilanciare l’economia sarebbe stato utile aumentare i salari, in generale.
E’ un problema degli ultimi anni che i salari non sono aumentati in proporzione a quanto sono aumentati i profitti delle imprese. In una situazione di globalizzazione come negli ultimi due decenni, ove sono entrati sul mercato paesi come Cina e India, ricchi di forza lavoro e poveri di capitale, è ovvio che ci sia una pressione in questo senso. Sono le leggi dell’economia, aumenta il lavoro rispetto al capitale, il prezzo del lavoro scende rispetto al capitale. Credo sarebbe bene ci fosse un aumento del valore reale degli stipendi, ritengo ci sia un problema di debole domanda aggregata in conseguenza del cambiamento di valore del capitale rispetto ai salari, quale possa essere la soluzione a questo non saprei. Tornare indietro rispetto alla strada della globalizzazione non mi pare possibile, in fondo fa piacere a tutti comprare automobili che costano meno perché vengono prodotte in paesi a basso costo del lavoro. L’unica via percorribile mi pare essere quella di evitare ulteriori passi verso la globalizzazione senza averne prima previsto tutte le possibili implicazioni. Si potrebbe intervenire sulla tassazione per correggere la redistribuzione del reddito, però questo comporterebbe degli accordi sulle politiche fiscali negli accordi internazionali, e non m pare ci sia questa volontà politica. Trump ha ridotto la tassazione sulle imprese per attirare capitali ed investimenti negli Stati Uniti, e questo è un ulteriore passo nella guerra che prosegue da vari anni verso una minore tassazione del capitale, perché il capitale è molto più mobile del lavoro nello spostarsi da un paese all’altro.
Qualche giorno fa in Nomisma, Bankitalia ha presentato un rapporto sulla produttività ove evidenziava come questa sia deficitaria nel nostro paese ed inferiore ad altri paese come il Portogallo.
Chiaramente abbiamo ancora dei problemi, nel mio libro ‘I 7 peccati capitali dell’economia italiana’ parto proprio da questo punto, che sono venti anni che il nostro reddito pro-capite è fermo. Non era mai successo nella storia italiana che ci fosse un ventennio senza crescita, a parte quelli del periodo bellico. Nei capitoli riporto come oltre la burocrazia e la giustizia i fattori frenanti siano anche l’evasione fiscale ed il crollo demografico. E’ importante per spiegare perché in termini di produttività noi cresciamo meno degli altri paesi.
In campo europeo, nel bilancio 2018 l’Unione ha previsto uno stanziamento per la creazione di un nucleo di difesa comune. Al di là che si tratti di difesa piuttosto che di un altro capitolo, è un segnale di volere per la prima volta fare qualcosa che sia comune a tutti i paesi membri, siamo di fronte ad un cambiamento delle strategie europee?
Credo che sarebbe importante ci fosse un bilancio unico europeo che non sia nell’ordine del 1% come adesso, ma del 7-8-9% del pil. Funzionerebbe meglio l’eurozona, ci sarebbe la capacità fiscale a livello europeo per fare politiche congiunturali in caso di necessità. Si potrebbero centralizzare certe politiche di spesa e di tassazione, facendo questo si renderebbero i paesi europei più simili gli uni agli altri facendo diventare l’area euro più solida e portando a convergere le politiche dei vari stati membri. Ad esempio, centralizzando i sussidi di disoccupazione o la tassazione sulle imprese, renderei più simili ed omogenei i mercati del lavoro. E’ la divergenza tra i paesi la cosa che può creare tensioni nell’eurozona e portare a problemi come quelli che abbiamo visto nel 2011-2012, con paesi che andavano in una direzione ed altri in quella opposta.
Come vede il futuro dell’Europa? Eravamo uno dei paesi con maggiore fiducia verso l’Europa, ora tra i più scettici.
Più che una previsione ho una speranza, che si vada verso una maggiore omogeneizzazione ed integrazione, anche se so che in Italia al momento non è molto di moda dire questo. Ora siamo uno dei paesi con meno fiducia nelle istituzioni europee, anche se è vero che la stessa cosa si può dire del sentire comune verso quelle italiane. Il problema è che da quando siamo entrati nell’euro non siamo cresciuti, siamo ancora fermi al 1998. Non sono di quelli che dicono che non c’è stato un problema con l’euro, ma che vi siamo entrati impreparati a fare le cose che andavano fatte nell’euro; soprattutto nel tenere in linea con gli altri paesi i costi di produzione. In particolare con quelli del nord-europa, ora in termini di flussi stiamo facendo le cose giuste. Abbiamo accumulato tra il 1999 ed il 2008 un divario con la Germania, in termini di costi del costo del lavoro, che ora stiamo recuperando, ma non ancora del tutto. In termini di finanza pubblica poi, c’è un gap ancora maggiore, in particolare sul versante del debito pubblico. Credo che dobbiamo restare in Europa, ma dobbiamo ottemperare le regole, anche quelle economiche, non solo quelle dei vari trattati.
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