Violenza sessuale. Com’eri vestita?

In prima linea nella difesa dei diritti e contro la violenza sulle donne, il nostro quotidiano ha intervistato una dei responsabili di La Cooperativa Sociale Cerchi d’Acqua, un centro antiviolenza che si è costituito nell’anno 2000. Il centro si occupa di contrastare la violenza alle donne e delle conseguenze che questa comporta su benessere psicofisico degli attori coinvolti e delle loro relazioni. Nasce da un progetto di un gruppo di donne che operavano già nel 1989 nel Centro di Accoglienza della Casa delle Donne Maltrattate di Milano.

Cerchi d’Acqua ha organizzato la mostra “Com’eri vestita?” – Rispondono le sopravvissute alla violenza sessuale. Un’installazione in cui i vestiti esposti rappresentano simbolicamente quelli indossati durante la violenza subita e sono accompagnati da brevi suggestioni che le donne hanno voluto condividere, raccontando alcuni elementi della loro esperienza. La mostra trae ispirazione dalla poesia What I was Wearing© di Mary Simmerling. L’idea è stata sviluppata nel 2013, in un’istallazione artistica dal titolo “what were you wearing?” da Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas. E’ nata dal bisogno di scuotere l’attenzione del pubblico e sfatare gli stereotipi sulla violenza sessuale. Troppo spesso infatti, la domanda “Cosa indossavi? Com’eri vestita?” sottende una sfumatura accusatoria, come a dire “te la sei un po’ cercata…”, rivolgendo i riflettori su chi subisce violenza e non su chi la agisce.

Allestita a Milano in via De Amicis 10 presso la Casa dei Diritti, la mostra è stata prorogata sino al 28 marzo. Abbiamo rivolto alcune domande a Silvana Milelli, Consulente accoglienza della Cooperativa Cerchi d’Acqua.

La prof.ssa Mary Semmerling con la sua famosa poesia, What I was wearing, ha posto in risalto un problema gravoso e terribile, che nei casi di stupro si cerca sempre di addossare colpe alle donne violentate addebitandogli comportamenti ‘poco virtuosi’ rispetto a una morale socialmente accettabile. Che esperienze avete in questo ambito?

Quando accade un fatto così grave, di fronte alla violenza sessuale da parte di uno sconosciuto (che rappresenta solo una minima parte dei casi in Italia), abbiamo innanzitutto la risposta mediatica che tende a mettere in risalto i comportamenti e gli atteggiamenti della donna offrendo quasi sempre un quadro di poca “prudenza”.

I racconti delle donne rimandano poi alla dimensione della risposta sociale: quando la violenza viene raccontata ad amici e familiari ancora troppo spesso le donne non vengono credute e talvolta si trovano a dover portare il peso di ciò che hanno svelato, divenendo “colpevoli” di aver rotto il silenzio che la famiglia impone.

Infine, la paura da parte della donna di affrontare un processo e un iter legislativo che la scoraggiano a sporgere denuncia. Si stima che su 652 casi di stupro solo 4,3 vengano denunciati (dati Istat 2015).

Quanto sopra riflette un problema culturale a mio avviso, si parla molto delle culture islamiche ed affini, ma anche l’Italia è tutt’altro che immune da questo direi, leggevo che i procedimenti per stalking vengono archiviati per il 13% a Bolzano, percentuale che sale al 47% in Sicilia. Esiste un problema culturale che attraversa anche la giustizia?

La violenza in tutte le sue forme è un fenomeno culturale e investe tutte le aree della società e quindi anche la giustizia.

Mi occupo da diversi anni dell’argomento, anche se non in maniera specifica, ma mi pare che non si siano fatti passi avanti decisivi su questo fronte, che percezione avete?

Se ne parla molto ma talvolta più in termini sensazionalistici che di contenuto politico. Solo i centri antiviolenza che fanno riferimento a D.i.R.e. (Donne in Rete contro la violenza) sono impegnati in una vera campagna di sensibilizzazione sul fenomeno. Le donne hanno maggiore consapevolezza dei propri diritti, ma la società non sembra pronta a sostenerle. Se il numero dei femminicidi è costante, è aumentata la spietatezza con cui vengono eseguiti. Il numero di donne che si rivolge ai centri antiviolenza è stabile. Cerchi d’Acqua per esempio ne accoglie in media 600-700 ogni anno. I giovani sono più bravi e “preparati” a riconoscere e individuare la violenza rispetto a quanto non lo fossero anni fa. Questo forse grazie anche alle campagne sociali sul tema e al fatto che se parli di più. Tuttavia, fanno fatica a riscontrare le disuguaglianze, le discriminazioni e i pregiudizi, loro e della società, sulle donne nel quotidiano, come se ciò non li riguardasse o fosse un problema di qualcun’altro da affrontare e tentare di risolvere.

La maggior parte delle violenze avviene tra le mura domestiche, spesso ci si limita a considerare lo stupro, ma forme di oppressione psicologica non sono da meno, cosa ne pensate?

Come avevo accennato prima, lo stupro da parte di estranei è solo una minima parte del problema della violenza di genere. È per questo che nella nostra mostra abbiamo voluto parlare anche della violenza sessuale tra le mura domestiche: mi riferisco innanzitutto a quella all’interno della coppia, ossia al rapporto sessuale non consenziente, così frequente che non ci fermiamo nemmeno a parlarne e si tende a non considerarlo, come se fosse un qualcosa di dovuto… E poi a quelle violenze più odiose che influenzano il futuro di una donna per sempre: l’abuso o le molestie sessuali anche in età infantile da parte di un familiare o amico di famiglia.

Quando intervistai in Bocconi la prof.ssa Paola Profeta, mi mostrò come il gender gap ponga l’Italia al 118° posto su 144 paesi esaminati; anche questo riflette ed incide sul problema della donna nella società e questa discriminante non è forse un fatto di violenza?

Il “gender gap” che pone l’Italia in una posizione umiliante descrive perfettamente la situazione culturale dell’Italia di oggi, dove la discriminazione di genere è parte integrante del nostro tessuto sociale tanto che non ce ne rendiamo neppure conto. Ci consideriamo un paese all’avanguardia e forse in molti aspetti lo siamo ma in quanto a parità di genere siamo ancora lontani dal raggiugere una posizione accettabile. Non dimentichiamo che fino alla fine degli anni ’80 erano ancora in vigore il codice Rocco, il delitto d’onore e il matrimonio riparatore.

In altro convegno sempre in Bocconi fu messo l’indice anche su fattori come l’andamento casalingo, ma anche l’affido condiviso dei figli, libererebbe tempo/lavoro per le donne che invece si trovano caricate massimamente dell’andamento casa, ed invece potrebbero dedicare parte del tempo alla propria carriera diminuendo il gender gap.

Si tratta sempre di una questione culturale cui si aggiunge la mancanza di adeguate politiche del lavoro, che permettano un miglior work-life balance, soprattutto per le donne. Quindi più contratti part-time, più elasticità, lavoro da casa, aspettativa con un reale diritto di reintegro nella propria posizione. C’è poi da sottolineare che nelle situazioni di violenza che noi vediamo ogni giorno la donna spesso viene spinta a lasciare la propria occupazione perché il marito glielo impone. Dopodiché, quando vorrebbe rendersi autonoma, non ci sono le opportunità per un reinserimento nel mondo del lavoro.

La legge sullo stalking ha portato dei miglioramenti, ma anche alla luce dei dati riportati all’inizio non pare essere stata risolutiva. Alla fine mancano i mezzi e forse anche la volontà di intervenire, pare che spesso si sottovaluti il problema da parte di chi dovrebbe provvedere, con i tristi risultati che vediamo poi nei notiziari. Cosa sarebbe necessario per renderla veramente un deterrente?

Innanzitutto informare. La separazione in caso di violenza domestica è un momento ad alto rischio, che i centri antiviolenza come Cerchi d’Acqua non sottovalutano. La sicurezza della donna è il nostro primo obiettivo e avere delle leggi che la garantiscano sarebbe utile. Non ha senso denunciare quando poi l’uomo rimane libero di agire, minacciare, perseguitare. Poi sensibilizzare e formare, soprattutto le nuove generazioni ma non solo. Il cambiamento culturale è alla portata di tutti, ma ci deve essere l’impegno di tutti perché avvenga.

Come è nata l’idea di allestire una mostra sull’argomento “What were you wearing? (Com’eri vestita?)”, che è partita dagli Stati Uniti ed è approdata a Milano. Quali difficoltà avete dovuto affrontate e cosa volete dimostrare o porre in evidenza che dir si voglia?

Per il nostro lavoro di sensibilizzazione e formazione, in particolare nelle scuole, siamo sempre alla ricerca di idee che possano aiutarci nel nostro impegno sociale, e le culture anglofone ci hanno offerto spesso spunti interessanti e di riflessione con le loro campagne, anche e soprattutto perché affrontano culturalmente il tema della violenza alle donne già da diversi anni mentre noi, in Italia, siamo indietro da questo punto di vista. Quando abbiamo scoperto questa mostra, abbiamo capito che rappresentava bene la nostra campagna contro gli stereotipi di genere e a sostegno delle donne che vivono una situazione di violenza. Le nostre difficoltà anche quelle di natura economica sono state superate dalla volontà e dall’impegno comune delle volontarie, che si sono dedicate con passione a questa nuova sfida. Abbiamo anche avuto un sostegno dal Comune di Milano con il suo patrocinio e la concessione della sala alla Casa dei Diritti dove si svolge la mostra.

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