Schermaglie e prove di accordo

Mettersi d’accordo per gli uffici di presidenza delle due Camere tra le forze vincenti il 4 marzo non è stato difficile. Le poltrone disponibili superavano il numero dei candidati e quindi la spartizione (specie tenendo fuori, almeno in parte, la terza forza, il PD) è stato possibile e relativamente agevole. Non ci voleva del resto molto a immaginarlo. Di Maio, Salvini, Berlusconi sono politici realisti e sapevano che il muro contro muro all’inizio della Legislatura, su posti che francamente non entusiasmano l’opinione pubblica, sarebbe stato controproducente.

Ora, però, con le consultazioni al Quirinale, comincia la fase più complicata, perché non si tratta tanto di accordarsi sul programma (cosa sempre possibile), ma sul nome del Capo del Governo. E qui la poltrona è una sola e gli aspiranti sono almeno due, ciascuno con qualche titolo per competere. In tempi di Prima Repubblica, il ruolo di Palazzo Chigi non era tanto decisivo. Presidenti del Consiglio andavano e venivano, frutto dei mutevoli equilibri all’interno della DC e poi del Pentapartito. Il vero potere stava nelle Segreterie dei partiti, soprattutto della DC.  Ma con la Seconda Repubblica, da Berlusconi in poi, il ruolo ha preso un rilievo diverso (difatti si parla sempre più di “Primo Ministro”, nell’accezione britannica del termine) e ciò anche grazie agli sviluppi che fanno del Capo del Governo il principale rappresentante del Paese al tavolo dei Consigli Europei in cui vengono discusse e spesso decise questioni vitali.

Ho detto che ambedue i contendenti hanno titolo ad aspirare alla poltrona. In realtà, a me pare sommessamente che Luigi Di Maio abbia il titolo più serio, visto che è il leader per cui un terzo degli italiani ha votato, Salvini,  però, si appoggia su una coalizione che in Parlamento ha i numeri maggiori. Come risolvere il rebus?

Nella settimana scorsa abbiamo assistito a un ping pong continuo tra Salvini e Di Maio, al quale si è aggiunto Berlusconi. Come sempre in una fase di mosse tattiche, intransigenza e dichiarazioni fiere da tutte le parti, tanto da far pensare a chiusure reciproche e insormontabili. In realtà, non è così. 5 Stelle e Lega sanno che, se non si accordano sul governo, sono possibili solo due ipotesi: rientro in gioco della sinistra, o nuove elezioni a breve scadenza. Immagino che i parlamentari appena eletti vedano questa seconda ipotesi come il fumo negli occhi. E come reagirebbe l’elettorato?

La quadratura del cerchio, ovviamente, resta complicata (non a torto Di Maio ha promesso un governo prima dei sei mesi che sono occorsi alla Germania per averne uno). I 5 Stelle non possono rinunciare alla guida dell’esecutivo senza frustrare la loro vittoria elettorale, a Salvini costerà fare il brillante secondo ed è quasi impossibile che accetti di tener fuori Forza Italia, sapendo che la coalizione di centrodestra è il suo ancoraggio necessario, senza del quale la Lega sarebbe solo il terzo partito, dietro anche al PD, e presente solo al Nord. D’altra parte, sarebbe difficile per i grillini digerire un’alleanza con Berlusconi. In definitiva, sarà quest’ultimo a tenere in mano le chiavi. L’invito rivolto alle “forze responsabili” può essere un segno di ragionevolezza? Forse sì, il personaggio è sempre stato pragmatico nelle situazioni complesse, salvo poi a fare alzate d’ingegno successive.

Vedremo. Occorreranno pazienza e abilità al Presidente Mattarella. Il quale dovrà tenere sempre, come asso nella manica, la possibilità di rivolgersi ai democratici per sostenere un esecutivo pentastellato, anche se questa possibilità appare per il momento remota.

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