Trivelle, la rivolta dell’Adriatico
Dal Veneto alla Puglia, un flash mob contro le trivelle ha ridisegnato domenica scorsa 8 aprile un fronte che gli eventi sembravano aver cancellato: quello tra chi vuole un Paese moderno, ‘verde’ e orientato al turismo, e chi sostiene la vecchia economia che dall’Unità d’Italia ad oggi ha sempre puntato su cemento e petrolio. Non si tratta di una contrapposizione tra Stato e petrolieri da una parte e ambientalisti dall’altra: perché a ben vedere gli ‘ambientalisti’, quelli delle associazioni note e blasonate, non compaiono affatto – ad eccezione di Greenpeace, in orgogliosa minoranza. Si tratta piuttosto, e in primo luogo, di una battaglia culturale: perché per il Bel Paese del paesaggio, delle tradizioni, del beni culturali e del turismo, per giunta patria di tecnologie evolute e produttive per lo sfruttamento delle risorse rinnovabili, sacrificare il territorio alle trivelle appare una scelta anacronistica, antieconomica e quindi incomprensibile. Per questo in Veneto, Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia, le prime regioni interessate dall’ondata di ‘trivelle’ che in realtà riguarda quasi tutte le regioni italiane, e quindi le prime a reagire, sono sorti comitati locali in risposta alla ‘politica delle trivelle’ impostata dai governi Monti e Letta e culminata con i governi Renzi e Gentiloni.
Dunque, non una semplice battaglia per l’ambiente: piuttosto, una battaglia a difesa del territorio in funzione di un’idea di economia, di futuro e di Paese. Da Mestre, Rimini, Ancona, S. Benedetto del Tronto, Giulianova, Pescara, Vasto, Termoli e Bari, hanno animato la manifestazione le associazioni Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, Coordinamento Nazionale No Triv, Coordinamento No Hub del gas – Abruzzo, Comitato di Quartiere Annunziata di Giulianova, Pescara 2.0, Gruppo No Triv di S.Salvo, Gruppo No Triv Terra di Bari, Trivelle Zero Marche, Trivelle Zero Molise, Associazione Ambiente e Salute nel Piceno, Rete Associazioni Tutela del Mare S.O.S. Adriatico Rimini. Oltre a Greenpeace, appunto.
Senza gli idrocarburi dell’Adriatico rischiamo di spegnere lampadine e cellulari? Ma per carità! Come abbiamo fatto a tenerli accesi prima dell’ ‘era trivelle in Adriatico’? E non lo sappiamo che consumiamo meno energia, e che le Rinnovabili possono produrne ormai la maggior parte, se solo ci si decide a metterle a pieno regime? Ancora: senza trivelle perdiamo posti di lavoro? Ma le piattaforme non sono largamente automatizzate? E quanti posti di lavoro si perderebbero, con le trivelle, nella pesca, la ricezione turistica e balneare, la ristorazione, l’artigianato, l‘agricoltura e il turismo? Altra obiezione: si tratta di ‘effetto Nimby’, ‘non in my back yard, non nel mio giardino’? No: piuttosto stiamo imparando da popoli che sempre – da incalliti esterofili e dispregiatori del nostro Paese – riteniamo più civili del nostro, che la città si mantiene in ordine se ciascuno cura il proprio giardino. Dopo un secolo e mezzo di imitazione delle ciminiere altrui, stiamo finalmente imparando che l’Italia è come un grande giardino: un giardino bello e redditizio come quello di una villa storica. E non abbiamo voglia di vederlo devastato dalla ruspa del vicino. Ecco perché la ‘battaglia dell’Adriatico’ del fronte contrario alle trivelle non è una battaglia inutile. E fanno bene i cittadini delle regioni adriatiche a chiedere al primo governo eletto dopo anni di riaprire la questione delle autorizzazioni, concesse a cuor leggero e imposte col pugno duro dai ‘governi tecnici’: in gioco c’è l’idea, ed il futuro, del nostro Paese.
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[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]