La FAO per il ritorno all’agroecologia
“La maggior parte della produzione alimentare si basa su sistemi agricoli ad alta intensità di risorse, con un costo elevato per l’ambiente; e di conseguenza il suolo, le foreste, l’acqua, la qualità dell’aria e la biodiversità continuano a degradarsi. L’attenzione sull’aumento della produzione ad ogni costo non è stata sufficiente a sradicare la fame “e stiamo assistendo a un’epidemia globale di obesità”. Con queste parole José Graziano da Silva, direttore generale della Fao, ha descritto la ‘crisi’ dell’agricoltura mondiale, nel suo intervento di apertura del secondo Simposio Internazionale di Agroecologia, che si è tenuto presso la sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura.
La crisi, crisi di sistema, c’è: dovuta al fatto che l’agricoltura ‘industriale’ sviluppata nel secondo dopoguerra, un sistema colturale ad elevato impatto ambientale per l’uso di macchinari e per la produzione di gas dagli allevamenti, deve oggi servire una popolazione mondiale triplicata. Ma per far questo, l’agricoltura industriale è divenuta uno delle fonti principali di CO2, oltre ad aver aggravato ingiustizie sociali e dipendenza economica di numerosi Paesi del Terzo Mondo. Di qui la necessità di modificare il sistema colturale, obiettivo che per la Fao può essere raggiunto applicando i principi dell’ ‘agroecologia’. “Occorre promuovere un cambiamento trasformativo nel modo in cui produciamo e consumiamo cibo”, ha spiegato Da Silva. “Dobbiamo proporre sistemi alimentari sostenibili che offrano cibo sano e nutriente, e servizi eco-sistemici resistenti al cambiamento climatico. L’agro-ecologia può offrire diversi contributi a questo processo di trasformazione dei nostri sistemi alimentari”.
Ma che cos’è l’agroecologia? Oggi, un concetto vasto, non una semplice pratica con definiti metodi di coltivazione. In definitiva, un approccio all’agricoltura, e insieme una scienza, un movimento o una pratica, che associa fattore ambientale, colturale e sociale. Un’idea di agricoltura che non è a priori ‘contro’ la tecnologia, ma che prevede di superarne la standardizzazione e di valutarne l’utilizzo caso per caso; e che tende al superamento delle monocolture e al ritorno alla policoltura, ben più ‘sostenibile’ in primo luogo dai suoli come dimostrato dalla millenaria pratica della ‘rotazione’ delle colture di anno in anno, che per esempio da noi consente ancora di produrre, e in abbondanza, a suoli coltivati fin dal tempo dei Romani.
A ben vedere, l’agroecologia riscopre un’idea dell’antica arte di coltivare i campi che non ci sorprende, perché propria della nostra tradizione, perché rilanciata dai sistemi ‘bio’ dei nostri agricoltori molto spesso integrati nel Made in Italy, e perché simile all’idea complessa di agricoltura formata da più di un secolo nelle Università italiane attraverso piani di studi interdisciplinari. Si tratta però di un’idea di agricoltura che risulta innovativa in quasi tutti gli altri Paesi dove i metodi colturali tradizionali sono stati mortificati e prevale una formazione specialistica sugli aspetti meramente produttivi dell’agricoltura, indipendentemente dalle condizioni sociali nelle quali avviene, e dalla sostenibilità: e che prevede di ‘forzare’ la Natura ed i ritmi armoniosi dell’agricoltura tradizionale, che è sostenibile, attraverso un uso non emergenziale, ma sistematico, massiccio, della chimica.
Dunque è la Fao questa volta, e non uno dei movimenti che da decenni denunciano i mali dell’agricoltura industriale su larga scala, a segnalare la necessità di ricondurre i metodi della coltivazione e dell’allevamento entro i limiti della sostenibilità. Non solo per la ‘teoria’ di qualità, insegnata nelle facoltà di Agraria, ma anche per le tante esperienze di agricoltura sostenibile maturate del tempo, il Bel Paese può offrire un importante contributo. Il Made in Italy agroalimentare, laddove fondato sui principi dell’agricoltura sostenibile, è un esempio di qualità e profitto. Un sistema ‘sano’ che per ora alcuni soggetti internazionali si sono limitati a tentare di imitare come tale. Perché invece, guardando al Made in Italy, non creare un Made in California, Made in Messico, Made in Australia o Made in Senegal, altrettanto sostenibili e redditizi?
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