Export agroalimentare, previsioni e dati

Con un export agroalimentare di oltre 40 miliardi di euro nel 2017, l’Italia continua a marciare molto bene in questo settore, ma rispetto ai  top player europei rimane decisamente indietro (Germania a 76 miliardi e Francia a 60 miliardi). È quanto emerge dalla relazione Agrifood Monitor, realizzata da Nomisma e Crif, e presentata lo scorso 15 marzo dal dott. Denis Pantini, Responsabile del settore per il think tank bolognese. L’evento “L’agroalimentare italiano alla prova dell’internazionalizzazione”, è stato organizzato presso il Savoia Hotel di Bologna dallo studio legale LS Lexjus Sinacta e ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Ioanna Stavropoulou (Granarolo spa), Giordano Emo Capodilista (Confagricoltura), Massimiliano Montalti (Assologistica), Andrea Villani (A.G.E.R.), Damiano Frosi (Politecnico di Milano).

Come detto prosegue la crescita dell’export agroalimentare italiano che nel 2017 mette a segno un ulteriore +7% rispetto al 2016 grazie soprattutto alle ottime performance di alcuni dei prodotti rappresentativi del “Made in Italy”: formaggi (+11%), vino (+6%), cioccolata (+20%), prodotti da forno (+12%). L’Italia fa meglio degli altri “big exporter” come Usa (-0,2%), Cina (+2,1%), Germania (+3,3%) o Canada (+3,4%), ma la distanza in valore assoluto resta ancora alta. La crisi economica del 2009 oltre ad avere inciso pesantemente su tutti i settori dell’economia e del mercato del lavoro, ha portato per la prima volta nella storia ad una contrazione anche dei consumi alimentari italiani. Questo ha spinto le imprese a lanciarsi sempre più verso i mercati esteri con i risultati testè riportati.

Il ‘Made in Italy’ non è più sufficiente da solo ad incentivare la penetrazione dei nostri prodotti sui mercati esteri, la nostra brand reputation si scontra con storiche carenze sistemiche. L’anomala alta percentuale di imprese piccole nel settore alimentare rispetto ai competitors, fa sì che sorgano molteplici criticità quando si tratta di vendere all’estero. Basti pensare che in Italia solamente l’1,7% delle imprese alimentari ha più di 50 addetti contro il 10,5% della Germania ed il 4,1% della Spagna. Non casualmente si rileva come i due terzi dell’export agroalimentare italiano sono destinati a mercati posti in prossimità, come l’Unione Europea, mentre la restante quota si distribuisce tra America (13,5%), Asia (9%), altri Paesi Europei (7,6%), Africa (2,4%). Questo malgrado nell’ultimo decennio il nostro export sia cresciuto del 229% verso il Medio Oriente, del 197% in Asia centrale, del 163% in Asia Orientale e del 123% nei paesi del centro-sud America. L’outlook persiste quindi con ottime prospettive e si prevede che nel prossimo quinquennio si avrà una robusta crescita dei consumi alimentari in molti dei principali mercati mondiali: Stati Uniti (+24%), Cina (+44%), India (+85%), Russia (+45%), Corea del Sud (+22%), Canada (+35%).

Ma altrettanto forti sono le resistenze dovute all’aumento dei dazi medi all’import e delle barriere non tariffarie, misure che tra il 2012 e il 2016 si sono incrementate in maniera decisamente eccessiva. Gli accordi internazionali come il CETA, entrato in vigore proprio lo scorso anno, possono giocare un ruolo di primo piano. Quanto accaduto nel mercato del vino in Cina è esemplificativo, Australia e Cile, grazie ad accordi bilaterali che hanno azzerato i dazi all’importazione, ed insieme hanno eroso più del 10% del mercato a Francia, Italia e Spagna (che all’opposto non godono di queste agevolazioni). Altro parametro favorevole ai prodotti italiani è il previsto aumento del reddito pro-capite nei paesi verso cui vuole volgersi il nostro export, il prezzo medio più alto del food&beverage italiano se ne avvantaggerà sicuramente.

USA, Cina e India sono i paesi dove è prevista la maggiore crescita dell’export italiano, sono questi imercati dove, tra l’altro, si stima aumenterà anche il reddito medio pro capite, una condizione utile alla luce dei prezzi medi dei prodotti italiani esportati dall’Italia, mediamente più alti di quelli dei competitor (ad esclusione del vino francese). Ma se sul mercato interno l’agroalimentare deve porre attenzione alla crescente attenzione dei consumatori a caratteristiche come la sostenibilità ed il biologico, nell’export restano da valutare le implicazioni della brexit e della possibile introduzione di dazi da parte dell’amministrazione Trump.

Tornando al mercato interno, si è evidenziato come i consumatori che ritengono molto importante l’origine italiana del prodotto sono arrivati al 75%, mentre il 65% ritiene altrettanto fondamentale il rapporto qualità-prezzo. Il tasso di penetrazione del food bio ha visto 1 milione di famiglie in più rispetto al 2016 tra gli acquirenti, un vero e proprio boom.

La lontananza e la complessità dell’impresa che aspetta l’export agroalimentare impone che sarà necessario innovarsi ed aggregarsi per presentarsi più forti alle sfide future. Numerosi sono i problemi da non sottovalutare nel campo della contrattualistica internazionale, a partire dalla scelta della legge applicabile da cui discendono i problemi di risoluzione dell’eventuale contenzioso. In materia contrattuale giova ricordare la diversa forza tra un contraente di grandi dimensioni ed uno di piccola-media grandezza. Nella casistica contrattuale esistono poi contratti tipo, contratti ad hoc e possono emergere contrasti tra le condizioni di vendita e quelle di acquisto. Numerosi sono i problemi che possono poi venire a galla nel delicato campo dei prodotti alimentari e dei beni deperibili, ad iniziare dalla richiesta da parte degli acquirenti dell’esclusione della Convenzione di Vienna, poi fattori come il trasporto e la conservazione, il rapido accertamento della difformità del prodotto. La non omogeneità delle leggi italiane con quelle di altri ordinamenti  in materia di risoluzione delle controversie, senza sottovalutare il fatto che uno stesso prodotto è destinato a molteplici destinazioni e consumatori.

“Affinché l’export dei prodotti agroalimentari italiani aumenti, è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici, in larga parte riconducibili ad aziende medio-grandi e rappresentanti una quota ancora ridotta del totale, meno del 20% del settore”, dichiara Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma.

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