Sessantotto, cinquant’anni
Cinquantesimo compleanno del ‘68, un momento che ha sicuramente segnato il secolo scorso e che, specialmente in Italia ha portato un’onda lunga che è durata perlomeno fino alla fine del decennio successivo e terminata probabilmente con la marcia dei quarantamila a Torino, anche se qualcuno avanza l’ipotesi che furono il movimento del ‘77 a decretarne la fine o forse il delitto Moro. Marco Boato nel ‘78 già ne parlava con senso ironico della sua fine e per i quarant’anni Pancho Pardi lo definì per i giovani, attuale come la spedizione dei mille.
In Italia il ‘68 arrivò tardi: già nel 1962 si erano registrati segnali importanti negli Stati Uniti, con gli studenti della prima generazione che non aveva vissuto una guerra (quella di Corea era terminata dieci anni prima e l’intervento in Vietnam è del 1965) che avvertivano la necessità di far sentire la loro presenza. Il Manifesto di Port Huron del ‘62 è forse l’atto di nascita ufficiale di ogni movimento. Sempre in America era nata all’inizio degli anni ‘60 la Beat Generation che influenzò il decennio e i suoi ideologi diventarono i guru dei giovani che cercavano una dimensione che andasse oltre stereotipi quasi ottocenteschi, dove i ruoli, sociali e familiari, erano definiti e non era semplice per il figlio di un operaio o di un mezzadro sconvolgerli. La situazione femminile non era migliore: la donna era destinata a diventare moglie e madre. Niente comunque di paragonabile con quella che vivevano negli Stati Uniti gli afroamericani: il discorso di Martin Luther King è del 1963.
In attesa dei movimenti del ‘68 e degli eventi che caratterizzarono quell’anno (gli omicidi di King e Bob Kennedy; il maggio francese, la contestazione alle Olimpiadi di Città del Messico, senza dimenticare la Primavera di Praga), in Italia si vivevano gli anni del Boom economico; i giovani ascoltavano i Beatles, non si tagliavano i capelli e vestivano in maniera diversa rispetto a pochi anni prima; conobbero gli stupefacenti. Ma è difficile ipotizzare che “On the road” di Kerouac, manifesto di quella generazione, potesse venire scritto da noi: un viaggio da Chicago a Santa Monica non è paragonabile, non solo per le distanze, con un Catania Torino o un Napoli Trento. Forse ci si stava preparando, e il Movimento Studentesco, pur nella differenza delle componenti fino a quando la sinistra non ne assunse l’egemonia, si mosse dopo Francia e Stati Uniti.
Le parole d’ordine erano contestazione, controcultura e lotta contro il potere, in qualsiasi forma potesse manifestarsi. È stato però rilevato da più parti che il ‘68 non è stato un movimento propositivo: forse ineluttabile; forse addirittura necessario. Ma è difficile vederne una faccia costruttiva; i buoni propositi di uguaglianza, del no a discriminazioni, oppressione, razzismo guerre e quanto altro, non erano accompagnati da un progetto realizzabile e perseguibile. Conferma in tal senso si può trovare nelle parole di Franco Battiato, cui non si possono certo imputare simpatie di destra, che ha definito il ‘68 una “buffonata. C’era puzza di semplice incazzatura. Ma a che serve se uno si ubriaca senza evolvere il suo pensiero?”
Lo stesso concetto lo possiamo ritrovare quando, nella sua “Storia d’Italia” Indro Montanelli, senza mandarlo a dire, non trova alcun miglioramento o crescita dal ‘68 che è la fucina di una torma di analfabeti che hanno poi occupato ruoli anche importanti non solo nella vita pubblica; una copia di quello originale francese che, peraltro, ebbe perlomeno un Sartre (anche se, secondo il giornalista toscano, era poco letto e ancor meno capito, e solo mitizzato) e non i leader italiani che distribuivano copie del Libretto Rosso di Mao Zedong.
Oggi resta difficile dire che cosa sia stato o che cosa resti del ‘68 in Italia, specialmente laddove si consideri che il movimento operaio del ‘69 ne è una naturale prosecuzione così come lo sono stati i movimenti extraparlamentari e i successivi anni di piombo. E anche Piazza Fontana è del 1969.
Ma una conclusione sul ‘68 deve essere trovata e, considerato che i testi che ne furono capisaldi sono quasi dimenticati, la mente corre ai Promessi Sposi e alle parole dell’Oste della locanda in cui Renzo, dopo essersi ubriacato, si lancia in imprecazioni contro le leggi e l’autorità, e il buon uomo lo apostrofa dicendogli: “Pezzo d’asino, per avere visto un po’ di gente andare in giro a far baccano pensi che il mondo abbia a cambiare”.
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