Marco Panara (A&F): serve giornalismo di qualità, non solo pluralismo
È originario di Chieti, divide gli studi tra Lecce e l’Università a Roma dove muove i primi passi da giornalista: Marco Panara inizia a lavorare a Milano prima per Mondo Economico, un settimanale che oggi non esiste più, e poi dal 1984 per La Repubblica, dove ho cominciato come redattore e poi come inviato per l’economia. Erano gli anni in cui l’Italia scopriva la finanza, la Borsa, i fondi comuni di investimento, in cui le battaglie per la conquista del potere finanziario diventarono pubbliche e gli uomini dell’industria e della finanza divennero personaggi. Nel 1988 si sposta a Tokyo, per aprire l’ufficio di corrispondenza in Estremo Oriente. Pochi mesi dopo si reca a Pechino per raccontare i giorni di Tien An Men. L’Asia cominciava allora a cambiare il suo ruolo nel mondo e il mondo e l’Italia a scoprirla. Il Giappone all’apice della sua potenza economica, la fine dei regimi dittatoriali in Corea del Sud, nelle Filippine, a Taiwan, l’esplosione delle tigri asiatiche prima e poi la potenza emergente della Cina, i primi passi di quel fenomeno travolgente che è stato la globalizzazione. Rientrato in Italia diviene inviato di politica a Roma, poi responsabile della redazione economica, infine coordinatore di Affari&Finanza, il settimanale economico de La Repubblica.
Una domanda d’obbligo: cosa l’ha portata a proporsi come rappresentante politico, visto che ci ricordiamo disse di trovare la politica così noiosa da avere chiesto di essere spostato ad altro incarico quando era corrispondente a Roma?
Ho deciso di candidarmi alle ultime elezioni perché ero convinto che ci trovavamo a un passaggio cruciale. Il 4 marzo non avremmo scelto tra una destra e una sinistra ma tra due visioni diverse della società e del futuro: da una parte chi cerca nel passato, nella chiusura, nel rifiuto della scienza e della conoscenza, nell’antieuropeismo una soluzione alle incertezze e ai timori che hanno reso fragile la nostra società; dall’altra chi invece, riconoscendo le ragioni di quella incertezza e di quella inquietudine si propone di curarne le cause e di costruire una società migliore, più equa, più prospera, più avanzata e di farlo nell’Europa e con l’Europa, dentro il perimetro dei valori moderni dell’Occidente, della libertà, della democrazia, dei diritti, del welfare, del rispetto. Di fronte ad una scelta tra due modelli di società e idee di futuro così diversi non si può restare a guardare, ed è questa la ragione per la quale mi sono impegnato direttamente. Le linee politiche della maggioranza che è oggi al governo confermano la fondatezza della mia preoccupazione.
In retrospettiva, come vedeva l’Italia da Tokyo e come l’ha trovata al suo rientro? Anche rispetto a quando la lasciò nel 1988.
Lasciai l’Italia per aprire a Tokyo l’ufficio di corrispondenza di Repubblica in Estremo Oriente nell’autunno del 1998. Allora la politica italiana era dominata dal famigerato CAF, Craxi, Andreotti, Forlani che avevano occupato tutto il sistema di potere. Erano gli ultimi fuochi di un equilibrio politico che si stava consumando e al quale la caduta del Muro di Berlino e l’insostenibilità della spessa pubblica italiana avrebbero dato di lì a poco il colpo finale. Al mio rientro, alla fine del ’93, c’era stata la stagione dei referendum, era esplosa Mani Pulite, era stato firmato il Trattato di Maastricht, sembrava che l’Italia si fosse risvegliata e un nuovo ciclo politico si stava aprendo. Tornai con molta curiosità, voglia di esserci e di partecipare al cambiamento.
Il suo libro Nomenklatura pone l’accento su un problema che è annoso e mai risolto, ed è un vero e proprio macigno che pesa sull’Italia. Il ministro Orlando mi espose dati allarmanti sulla lunghezza dei processi rispetto al Giappone in primis ed agli altri nostri competitors. Il Presidente Prodi, endorser fra l’altro proprio di Insieme, mi valutò in un 4% di incremento del pil la sola cancellazione dei TAR (pur se provocatoria, l’idea di fondo era quella). Il Dott. Cottarelli nel suo ultimo libro dedica un capitolo intero proprio a questo problema. Se guardiamo indietro gli ultimi passi fatti in tale direzione sono ancora gli interventi di Bassanini e le lenzuolate di Bersani, ci sono speranze e cosa si potrebbe fare per mitigare questa situazione?
L’Italia è ostaggio della sua cultura giuridico-amministrativa, che è l’ostacolo principale allo sviluppo e alla modernizzazione. Ora abbiamo una doppia opportunità, la prima è la trasformazione digitale, che se fosse accompagnata da una reingegnerizzazione dei processi amministrativi e fosse adottata in maniera pervasiva potrebbe essere una leva trasformativa potente. La seconda è il rinnovo generazionale, nei prossimi cinque anni andranno in pensione alcune centinaia di migliaia di dipendenti pubblici e saranno sostituiti da giovani che dovrebbero essere meno conservatori, avere una cultura digitale ed essere più innovatori. Ma dipenderà da come saranno gestiti questi passaggi, se si vorrà veramente un’amministrazione digitale oppure solo un’amministrazione che usa le email invece di mandarsi le lettere, e se si vorrà approfittare del cambio generazionale per dotare la pubblica amministrazione di competenze articolate e non solo giuridiche, se il personale sarà selezionato in base al merito o se sarà una gigantesca operazione clientelare: in sostanza se si vorrà davvero modernizzare la PA e attraverso di essa il paese, oppure quella sarà solo la bandiera dietro la quale lasciar prosperare vecchie rendite e vecchi sistemi di potere e alimentare nuove clientele.
Nei suoi libri ha toccato anche altri due problemi fondamentali per il nostro paese, la scuola ed il lavoro. In merito alla scuola direi che oggettivamente si fa fatica a vedere cambiamenti in positivo da non so quanti decenni, la laurea breve si è rivelata un semi-fallimento, in tutti i convegni, sia il Presidente Prodi che il Presidente Vacchi, hanno evidenziato la carenza delle figure professionali necessarie alle imprese, ne usciremo mai?
Non lo so se ne usciremo, so che non abbiamo nemmeno cominciato a cercare la strada per uscirne. La scuola in questi anni si è impoverita, i docenti sono stati indeboliti; l’università è stata frammentata, provincializzata. E oggi i giovani non trovano lavoro mentre le imprese non trovano le competenze delle quali hanno bisogno. La scuola è un pachiderma fragile, al quale le riforme continue e spesso contraddittorie hanno fatto più male che bene. Quello di cui ha bisogno è una visione solida e condivisa e un progetto di lungo termine da portare avanti con continuità e coerenza e con i tempi giusti. La scuola apre tutte le mattine le aule ai bambini e ai ragazzi, non si può chiudere per restauri, e questo richiede che la trasformazione necessaria rispetti nei tempi e nei modi una operatività che tocca milioni di bambini e ragazzi, le loro famiglie, gli insegnanti. E richiede che quel processo trasformativo non sia il frutto di una improvvisazione politica, ma di riflessione e discussione. Che sarebbe ora di cominciare a fare.
In merito al lavoro, il jobs act ha prodotto risultati limitati al periodo di vigenza degli incentivi, ma soprattutto gli economisti internazionali fanno notare come, per la prima volta nella storia dell’umanità, la rivoluzione tecnologica in atto non produca nuove figure, ma la sparizione degli occupati sostituendoli con tecnologia. Dalla Germania hanno calcolato che in futuro non ci sarà materialmente lavoro per tutti nemmeno con una forte ripresa e che sarà necessario prevedere redditi minimi di sopravvivenza. Senza collegarci alle polemiche del nostro giardino sul reddito di cittadinanza e affini, ma verso che mondo stiamo andando secondo lei che è sempre stato molto attento alle dinamiche sociali?
I passaggi tecnologici distruggono il vecchio lavoro, questo lo sappiamo, e nell’esperienza delle passate rivoluzioni industriali poi ne hanno creati di nuovi. L’altra cosa che sappiamo è che tra la distruzione dei lavori vecchi e la nascita di quelli nuovi in misura adeguata a compensare quelli perduti passa del tempo, e una o anche due generazioni pagano un prezzo elevato a quella trasformazione. Se la rivoluzione digitale in atto creerà tanto lavoro quanto ne distrugge non lo sappiamo, ma non lo sapevano neanche gli artigiani ai tempi della prima e della seconda rivoluzione industriale e gli operai ai tempi della terza. È difficile immaginare quello che ci aspetta e le preoccupazioni sono legittime. Le nuove tecnologie sostituiscono sempre più oltre al lavoro fisico anche il lavoro concettuale e cominciano a sostituire anche quello intellettuale sofisticato, e questa è una esperienza che l’umanità non ha mai vissuto prima. Un altro aspetto è che le grandi trasformazioni hanno spostato masse enormi di lavoratori prima dall’agricoltura all’industria e poi dall’industria al terziario: la trasformazione attuale dove le sposterà?
In campagna elettorale si sono sprecate le promesse da tutte le parti, qualcosa dovranno poi mantenere, come si potranno muovere tra le pieghe di un bilancio risicato e le maglie di un debito pubblico colossale? Alcuni sentori di una nuova bolla sono avvertiti da vari economisti.
Il governo formato da 5Stelle e Lega parte con un programma molto generoso, ma non realistico. Potrà non essere attuato, come alle promesse elettorali e ai programmi di governo è quasi sempre accaduto in passato, oppure potrebbe essere attuato a un costo esorbitante non solo per l’equilibrio del bilancio pubblico ma per tutta l’economia del paese, e il prezzo lo pagherebbero tutti, risparmiatori e imprese, lavoratori e pensionati. E tutto ciò prima ancora di pensare alle conseguenze sulla stabilità europea e all’ulteriore costo sociale, politico ed economico che un indebolimento dell’Unione porterebbe con sé.
Sovranisti, isolazionisti, nazionalisti, il sogno di un’Europa unita sta svanendo sotto la spinta di forze centrifughe e personalismi? Cosa a suo parere dovrebbe fare l’Europa?
Il passaggio dall’approccio comunitario a quello intergovernativo è stato rovinoso per il progetto europeo, ha fatto esplodere gli egoismi, ridato forza ai sistemi di potere e alle rendite di posizione. Con l’esplosione della crisi il meccanismo intergovernativo ha dato il peggio di sé, quando più c’era bisogno di solidarietà ha prevalso l’egoismo, quanto più c’era bisogno di fiducia ha prevalso il sospetto, quanto più c’era bisogno di democrazia ha prevalso la tecnocrazia. Quando più c’era bisogno di comunità ha prevalso l’individualismo. Rimettere insieme i cocci di un’opinione pubblica di cui sono stati sobillati i sentimenti più regressivi non sarà facile, ma si può ricominciare a costruire e il primo passo è aumentare il tasso di democrazia dell’Unione.
Diverse politiche di governance europea, come il meccanismo dello spitzenkandidat, sono andate in direzione di avvicinare i cittadini alle istituzioni, sono sufficienti o c’è ancora molto da fare? Il mio sentore è che spesso, soprattutto i politici italiani che risiedono nelle istituzioni europee, tendano ad isolarsi, è molto più facile avere una intervista, o comunque una risposta, da un Presidente Europeo che da un politico italiano in Europa.
Penso che l’elezione diretta del presidente della Commissione sia un passo giusto nella direzione dell’aumento del tasso di democrazia dell’Unione. Penso anche che oltre alle auspicabili innovazioni istituzionali sarebbe molto utile che i parlamentari europei rappresentassero un legame reale tra i cittadini e le istituzioni dell’Unione. E si possono fare anche innovazioni piccole ma significative: in alcuni paesi membri dell’Unione su ogni fontana restaurata, su ogni ponte, su ogni autobus urbano finanziati con quelle risorse c’è una targa con su scritto “L’acquisto (o il restauro, o la costruzione) è stata finanziata dai Fondi Europei”, in Italia quella targa non l’ho vista mai.
Tema caldissimo resta l’immigrazione, i regolamenti di Dublino furono redatti in tempi in cui non c’erano i numeri attuali, come si potrebbe intervenire al momento senza alzare muri che hanno già dimostrato tutta la loro inutilità, limitandosi semplicemente a spostare i flussi.
L’immigrazione non regolata e non gestita è un problema in sé, e diventando il parafulmine del disagio sociale cresciuto in questi anni difficili, è diventato un enorme problema politico. La soluzione non esiste quando ci sono aree del mondo con tenori di vita così diversi e con andamenti demografici così diversi, e il problema diventa drammatico quando i popoli sono vittime di conflitti o di regimi sanguinari. Bisognerebbe ridare la pace a quei popoli, aiutarli ad avviare un processo di sviluppo sociale ed economico, bisognerebbe cioè rimuovere le cause delle migrazioni “epocali”. Ma non sembra stiamo avendo molto successo da questo punto di vista e allora lo sforzo maggiore deve essere nel contenimento del fenomeno, come è stato fatto dall’Italia nell’ultimo anno e mezzo; nel contrasto determinato della criminalità che gestisce il traffico di esseri umani; nella gestione efficace degli ingressi e dei riconoscimenti; in processi di integrazione strutturati. Un impegno enorme e non temporaneo che va affrontato insieme, da tutti i paesi dell’Unione.
Per chiudere un tema decisamente attuale ed importante, il futuro della carta stampata che, stando alle previsioni, viene data in estinzione. Guardando i dati delle agenzie di certificazione vendite i numeri sono decisamente preoccupanti con cali di vendite continui ed in alcuni casi molto forti. In che maniera si può invertire la tendenza, se ritiene ciò possibile. Molti lettori ed anche attori del mercato pongono l’accento su una maniera di scrittura ancorata al passato e che oggi non riesce più a catturare l’attenzione del pubblico, la testualità viene definita ‘pomposa’ e quindi non gradita alle nuove generazioni. A fronte di ciò, dalle analisi e test che ho fatto, mi pare che al di là di abbellimenti di facciata, diversi format grafici, le grandi testate (il Presidente Prodi stesso prima dell’intervista, con la sua proverbiale sagacia ed umorismo, chiese “Ma esistono ancora le testate?”) si chiudono a fortino. Si parla spesso di due scuole giornalistiche, una anglosassone molto tesa al controllo del potere per così dire, cani da guardia si usa spesso dire, e quella (con molte fortunate eccezioni) italiana più ‘sensibile’ ai cosiddetti poteri forti. Che futuro per la professione anche alla luce degli scenari moderni dove impazzano social e influencer?
I tempi d’oro della carta stampata sono alle spalle e non ritorneranno. Pazienza. Ciò che conta sono il pluralismo e la qualità dell’informazione più che i media attraverso il quale l’informazione raggiunge il pubblico. Il pluralismo mi sembra meno in pericolo che in passato con l’abbattimento dei costi di accesso all’attività editoriale che internet consente e con l’informazione diffusa che smartphone e web hanno favorito. Più problematico è il problema della qualità dell’informazione, la verifica, la corrispondenza delle notizie alla realtà, l’utilizzo strumentale e sofisticato di informazioni false per alimentare il pregiudizio e perseguire specifici interessi. È un problema che dovremo imparare a gestire se non vogliamo che abbia un impatto negativo (che in parte ha già avuto) sulla qualità della democrazia. Dobbiamo essere consapevoli del rapporto che c’è tra la tipologia di media e l’esercizio della cittadinanza da una parte e del potere dall’altra. Per i regimi sarebbe stato assai più difficile diventare totalitari se non ci fosse stata la radio.
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