Turchia, nuovo mandato e pieni poteri a Erdogan

La marcia di avvicinamento all’autoritarismo era cominciata già un paio di anni fa, con la dura reazione del “sultano” al colpo di Stato architettato ai suoi danni nel 2016. Soprattutto da allora, Recep Tayyip Erdogan ha impresso una forte accelerazione alla strategia di massima centralizzazione del potere. Il golpe ha legittimato il leader ad infliggere agli oppositori pesanti handicap, come le restrizioni della libertà personale e delle possibilità di manovra politica. Inoltre, il ruolo cruciale della Mezzaluna – nel contesto di guerra civile nella confinante Siria – ha fornito l’occasione di rendersi indispensabile alla UE in funzione di blocco dei flussi di profughi verso l’Europa, l’opportunità di stringere sotterranei accordi relativi al petrolio dei giacimenti siriani controllati dall’Isis e il pretesto di combattere gli odiati curdi, considerati da Ankara pericolosi terroristi interni.

Nei giorni scorsi, dopo aver già guidato il Paese per 15 anni consecutivi, Erdogan ha ottenuto al primo turno un nuovo mandato quinquennale con la schiacciante maggioranza del 53% di voti alle urne, cui però non corrisponde una maggioranza assoluta in parlamento. Il rappresentante del Chp (partito repubblicano), principale partito d’opposizione, Muharrem Ince, seguace del padre della patria Kemal Ataturk, si è fermato al 31% e, pur lamentando brogli elettorali, ha – alla fine – riconosciuto il successo dell’antagonista. Supera, invece, la soglia del 10%, imposta col referendum costituzionale dell’aprile del 2017, il partito filo-curdo dell’Hdp, che si garantisce – guastando la festa a Erdogan – 66 seggi in parlamento, nonostante la campagna elettorale del leader Selahattin Demirtas sia stata condotta dalle galere turche.

Il rais, dunque, trasforma oggi il sistema politico del Paese e completa il processo di transizione verso una repubblica presidenziale di tipo autoritario, in cui il potere esecutivo dell’abolita carica di premier è fagocitato dal capo dello Stato. E in queste ore, mentre la lira turca vola, il neo presidente ha incassato le congratulazioni di Putin, soddisfatto di una riconferma che, nonostante l’adesione alla Nato, rimane elemento di pressione contro l’Europa per l’elevato potere ricattatorio esercitabile sull’emergenza  migratoria.

Sul tema, assai dibattuto nel Paese, ove stazionano circa tre milioni e mezzo di siriani in fuga dal conflitto, cosa che ha creato tensioni sociali e numerosi casi di violenza fra costoro e la cittadinanza turca, sono emerse due diverse visioni: quella di Ince, kemalista di tendenza laica, e di Meral Aksener, a capo degli ultranazionalisti,  focalizzata sul rientro dei profughi in patria il prima possibile, e quella di Erdogan, che vorrebbe prima creare una Siria fuori dal controllo dell’ex amico Assad e poi riversarvi progressivamente tutti i rifugiati. Il piano del leader di Akp, coerente con le personali mire espansionistiche, tende a realizzare in Siria una sorta di protettorato turco, presidiando e interrompendo, in tal modo, la continuità territoriale di quella porzione di regione sul confine siro-turco, abitata dai nemici curdi. Alterazioni, dunque, dell’assetto geopolitico di quello scacchiere, che darebbero enormi vantaggi alla Turchia.

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