Danza macabra (Film, 1963)

Il primo film gotico di Antonio Margheriti è Danza macabra, una storia di fantasmi girata in un suggestivo bianco e nero, con protagonista niente meno che Edgard Allan Poe, memorabile per un’intensa interpretazione di Barbara Steele nei panni di uno spettro inquietante e morboso. La narrazione prende le mosse all’interno di una taverna londinese in seguito a una scommessa tra il giornalista Alan Foster e un amico di Poe. Tra l’altro lo scrittore nelle prime sequenze narra brani tratti da Berenice e cita alcuni passi di considerazioni letterarie desunte dalla sua opera. Il giornalista è un uomo molto razionale, non crede ai misteri e alle creazioni fantastiche. Per questo scommette di poter passare un’intera notte in un castello infestato da fantasmi che tornano in vita per rievocare il loro passato. Non è una notte come le altre, perché è il primo novembre, giorno dei morti che tornano sulla terra. Nel castello Foster incontra due spettri con le sembianze di giovani donne che sembrano avere un legame lesbico. Il giornalista rivede gli ultimi momenti della vita di Elizabeth, si innamora della bella presenza spettrale e resiste all’assalto dei fantasmi che cercano il suo sangue per continuare a vivere. La donna difende Foster dagli spettri e prima di tornare nella tomba lo fa fuggire, ma il lieto fine non è assicurato perché la grata del cancello trafigge a morte il giornalista.

L’horror italiano presenta spesso questa caratteristica della mancanza di lieto fine e Antonio Margheriti non si allontana dalla lezione di Mario Bava. Danza macabra è un film horror soprannaturale, di impostazione e ambientazione gotica, pervaso di un erotismo soffuso e malsano che sfida la censura del tempo. La dimensione onirica e surreale caratterizza un film tutto giocato sul soprannaturale e lungo binari da horror fantastico.

Le atmosfere gotiche sono tutte presenti: notti nebbiose, vento che soffia, piante del giardino che diventano mani tese ad avvolgere corpi, stanze tenebrose, gatti che corrono, porte cigolanti, armature, ragnatele, finestre che si aprono e via dicendo. I passi del giornalista risuonano a lungo per stanze silenziose, una musica intensa sottolinea la tensione e apre le porte al mistero che incombe. Il film è molto teatrale, girato completamente in interni, basato su recitazione ed effetti speciali. Il luogo sinistro è reso dal regista con estrema cura, sin dal macabro giardino della villa trasformato in cimitero, ma anche con la polvere sui tavoli, il pendolo che batte le ore e anticipa le misteriose apparizioni. Alcune sequenze sono indimenticabili: la mano di Elizabeth che si posa sulla spalla del giornalista, i fantasmi che danzano, un vento innaturale che spenge il candelabro e il volto di una donna riflesso nel quadro.

Margheriti cita Carmilla di Le Fanu – uno dei primi racconti vampirici a tema lesbico – riprendendo la copertina del libro in una delle scene iniziali. L’andamento della storia è da melodramma horror, con una superba Barbara Steele nella parte della defunta innamorata che vive solo quando ama. Il soprannaturale irrompe con prepotenza ma il regista lo rende credibile: la vita va oltre la morte quando il decesso avviene e una persona non è preparata. I fantasmi rivivono in eterno la scena della loro morte, ma sono dei vampiri che vivono cibandosi di sangue, perché il sangue è fonte di vita e solo il sangue fa vivere ancora i morti. Il finale è notevole. “Ora tocca a te, Foster. È giunta la tua ora”. Comincia la caccia all’uomo da parte dei fantasmi, con il tentativo di salvarlo compiuto da Elizabeth che non modifica il destino. Memorabile la trasformazione macabra di Barbara Steele nel giardino della villa che ricorda un’analoga scena de I vampiri di Riccardo Freda. Il volto della donna si fa intenso e spiritato, la carne si decompone sino a scomparire e diventa un teschio. La morte di Foster è un capolavoro di suspense. Edgard Allan Poe scriverà questa storia, ma come sempre nessuno ci crederà.

Il film non è tratto da un racconto di Poe, come la produzione tenta di far credere, ma è una storia originale scritta e sceneggiata da Gianni Grimaldi e Bruno Corbucci, che si firmano Jean Grimaud e Gordon Wiles jr.. I due sceneggiatori si prendono gioco pure della produzione presentando il soggetto come una novella scritta da una coppia di improbabili inglesi chiamati Winston e Smith. Il regista doveva essere Sergio Corbucci, ma dopo un breve periodo di riprese passò la mano a Margheriti che aveva iniziato come direttore degli effetti speciali. A Margheriti non piaceva: “Lo sento parecchio datato” disse in una vecchia intervista rilasciata a Segno Cinema. Non è vero. Per Mereghetti è “uno dei migliori gotici italiani dell’epoca, dove l’eleganza classica della messa in scena (con una prodigiosa fotografia contrastata di Riccardo Pallottini e abbondanza di piani sequenza) fonde il romanticismo macabro con temi sottilmente morbosi, creando un clima sinuoso e suggestivo, senza il lieto fine d’obbligo”. Notevoli le musiche di Riz Ortolani e gli effetti dello stesso Margheriti. Aiuto regista è un giovane Ruggero Deodato. Il film viene girato in due settimane e un giorno (dedicato agli effetti speciali), con tre macchine da presa usate contemporaneamente.

Tra gli interpreti citiamo Silvano Tranquilli nei panni di Edgard Allan Poe, Umberto Raho e Georges Riviere (il giornalista), oltre a una splendida Barbara Steele, fresca protagonista de La maschera del demonio. Margheriti dirige un film inquietante e morboso con mano solida e ispirata, insistendo sull’atmosfera torbida caratterizzata da intrecci amorosi, ricordi del passato, antiche gelosie e rapporti lesbici. Negli USA – dove è molto amato – esce come Castle of Blood e poi come Castle of Terror. Il regista gira un remake di questa pellicola sotto il titolo di Nella stretta morsa del ragno (1971), con Klaus Kinski nei panni di Edgard Allan Poe.

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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