Giustizia, quale soluzione?
La vicenda di Berlusconi ha riacceso le pressioni per una riforma della Giustizia. Anche Alfano vi si è associato, sostenendo che, ora che la vicenda del Cavaliere si è consumata, “il PD non ha più alibi per non affrontare il problema”. Ma la sentenza della Cassazione non è stata accettata, sull’ex-premier pendono altri processi di pari gravità e i propositi della sua parte politica sono apertamente vendicativi. La sua lunga ombra continua dunque a proiettarsi su un tema di tanta importanza. Eppure una riforma seria, non un mero regolamento di conti, sarebbe non solo necessaria, ma urgente. I mali della nostra Giustizia sono sotto gli occhi di tutti. Limitiamoci ai più gravi: lentezza dei processi, tanto civili che penali; manette facili e arbitrarietà dei lunghi arresti preventivi; troppi casi di prescrizione; disparità di fatto tra accusa e difesa; politicizzazione di una parte della Magistratura; impunità in caso di errore, anche se dovuto a dolo e colpa grave.
La lentezza dei processi è in gran parte dovuta alla farraginosità di norme procedurali ormai superate, all’eccesso di “penalizzazione” che intasa le nostre aule (anche per fatti per cui sarebbe sufficiente una misura amministrativa), ma anche alla inefficiente distribuzione degli uffici giudiziari. Basterebbe che il Governo affidasse questi temi a un ristretto gruppo di veri esperti, giudici ed avvocati al di fuori delle parti, con mandato a termine, e poi procedesse per decreti legge. Altrettanto per le manette facili e la carcerazione preventiva, che dovrebbero essere limitate a un numero ben preciso di reati di grave pericolosità sociale. La prescrizione facile non si combatte col ridurne la durata (come nella proposta Alfano), né certo allungandola, ma assicurandosi che i processi penali si tengano in tempi normali e magari stabilendo che la prescrizione è interrotta una volta disposto il rinvio a giudizio. La disparità tra accusa e difesa impone la separazione di carriere tra PM e Giudici, qual’era prevista nel ddl Alfano. Sarebbe saggio discuterla con le rappresentanze dei giudici per assicurarsi che consenta ai due rami eguali sviluppi di carriera e accesso ai gradi apicali.
Resta il problema della politicizzazione e quello, connesso, della responsabilità civile. Sulla carta, niente di più giusto, e difatti fu sancita in un referendum popolare su iniziativa dei radicali; in realtà, si tratta di una cosa impraticabile e dannosa. Impraticabile: nei giudizi civili l’eventuale danno è il più delle volte quantificabile; non così in quelli penali: come lo si determina? Prendiamo il caso Berlusconi-MEDIASET; una volta accertato l’eventuale dolo o la colpa grave, come stabilire l’ammontare del danno? Come si risarcisce qualcuno per la perdita del seggio di senatore e della possibilità di fare il Capo del Governo? Con milioni di euro? Decine? Centinaia? Miliardi? E ancora: a quel caso hanno concorso, tra PM, GUP, membri del Tribunale, della Corte d’Appello e della Cassazione, una dozzina o più di magistrati: come ripartire la colpa? Andiamo avanti: chi stabilirebbe l’esistenza del dolo o della colpa grave e cifrerebbe il danno dei giudici? Altri giudici?
Dannosa: quale giudice si assumerebbe il rischio di decidere in casi appena appena dubbi? Quale magistrato esporrebbe sé stesso e la sua famiglia alla rovina? Giustamente Casini, nel pieno della discussione sulla proposta Alfano, osservò che il risultato pratico sarebbe stata una paralisi del funzionamento della Giustizia.
Questo non vuol dire che dolo o colpa grave siano da accettare passivamente. Le sanzioni dovrebbero però essere realistiche, non impossibili: in altre parole, disciplinari e tali da incidere anche seriamente sul colpevole e sulla sua carriera, fino all’espulsione. Qui, però, si presenta il vero nodo del problema: l’organo competente in materia disciplinare, il Consiglio Superiore della Magistratura, per la sua composizione non garantisce né imparzialità né sicurezza di sanzioni. Esso è formato per un terzo da magistrati in servizio, eletti dai loro colleghi, da cui è da aspettarsi un atteggiamento tendenzialmente corporativo; per un terzo da membri eletti dal Parlamento (quindi dai partiti, con scarsa garanzia di serenità di giudizio) e solo per un terzo scelti dal Capo dello Stato. Offro qui una soluzione: se si vuole una Giustizia migliore, la scelta di tutti i membri del CSM sia lasciata al Capo dello Stato, con l’obbligo di sceglierli tra cattedratici del diritto e giuristi di chiara fama (ma non politici, né magistrati od avvocati in attività). Tra l’altro, si ridurrebbe la mala erba delle correnti di giudici con colorazioni politiche, che sono prevalentemente strumenti elettorali: un’offesa all’imparzialità richiesta alla Giustizia in ogni Paese civile.
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