Non rubiamo il lavoro alle nuvole

Il 15 agosto del 1969 cominciava la tre giorni di Woodstock. La prima epocale riunione di musicisti riuniti insieme per cantare la pace, l’amore e tutte queste belle cose. Era un anno speciale in tutti i sensi;  Charles Manson uccide la moglie incinta di Polanski e altri suoi amici in un delirio da angelo della morte, al cinema esce Easy Rider e tutti i maschi sognano la chopper di Fonda e in Italia Satyricon di Federico Fellini. Presidente degli Stati Uniti è Richard Nixon. Uno scenario mondiale molto dinamico, segnato dalla guerra nel Vietnam, dalla conquista della  luna, insomma tanti eventi speciali positivi e negativi .

Ancora adesso si parla e si pensa a Woodstock come i tre giorni della libera musica; una miriade di Figli dei fiori insieme a cantare e ascoltare musica ma anche a drogarsi e praticare il libero amore. Ci sono tante testimonianze dell’epoca, filmati bianchi e nero che ritraggono fanciulle coperte di veli che danzano, capelloni a torso nudo che meditano e via dicendo.

Ma ci sono anche testimonianze come quella del produttore Eddie Kramer che invece lo smontano di tutto il romanticismo: “Tre giorni di droga e fango: Woodstock è stato un incubo!”. Così, intervistato, in poche frasi smontò tutta la retorica accumulata negli anni su questo evento.

Lui era andato lì per lavorare, per incidere su nastro tutto quello che avveniva sul palco. ”Gran bel lavoro in teoria, ma quando sei l’unico essere umano lucido in mezzo a 500 mila strafatti, le cose si complicano. Artisti, manager, security, staff: tutti fuori di testa. Ricordo un mixer in fiamme e un gruppo di tecnici in preda a Lsd che gli danzava intorno. ‘Nessuno lo spegne?’ chiedo io. ‘Noi non rubiamo il lavoro alle nuvole’ fu la risposta”. Questa sua frase spiega velocemente cosa davvero fu Woodstock. Senza parlare della sporcizia e degli escrementi ovunque. Pensate tutta questa gente che fa i suoi bisogni e fate un piccolo calcolo. Probabilmente non era rimasto un solo cespuglio indenne.

Ma se torniamo al romantico ci salviamo con la musica, con gli assoli di Hendricks: sicuramente una delle immagini più forti del Festival è quella del chitarrista mancino che suona l’inno americano con la sua mitica Fender. Erano le 10 del mattino del quarto giorno, davanti a una platea ridotta. Il festival era concluso e veniva di diritto consegnato alla storia. E poco importa delle droghe e della cacca; erano altri tempi, ora invece dei contenuti si sarebbe parlato solo dell’immondizia lasciata in terra. E invece per diventare mito bisogna forse lasciar stare e concentrarsi solo sulle emozioni. Difficile? Forse, in questi nostri tempi così squallidi, direi quasi impossibile.

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